L’ultima cena. Giovedì santo

La riflessione di oggi è presa dal libro Cene ultime dell’amico Luca Frigerio, edito da Ancora (pp. 45-69).

Entrare al Duomo di Modena è un’esperienza sorprendente: lo sguardo del visitatore viene subito attratto dal magnifico pontile istoriato che separa la navata centrale dal presbiterio rialzato. È il capolavoro dei maestri Campionesi (con il nome di “Campionesi” si designano le maestranze di scultori, lapicidi e architetti originari della zona di Campione, e più in generale dei laghi lombardi, attivi in varie regioni italiane tra la metà del XII e la fine del XIV secolo), che scesero dalle valli ticinesi per lavorare in questo tempio dell’Emilia.

Le figure ieratiche, dritte e affusolate come colonne, emergono dalla pietra con gesti misurati e solenni, eppure sorprendentemente veri, efficacemente realistici. Il candore di una lunga tovaglia a pieghe ci attira alla tavola del Signore, ammaliandoci con un catalogo di minuti dettagli. Ma a colpirci sono ancor più i colori, stesi su tutta la superficie con accostamenti anche arditi.

Il parapetto del pontile modenese è dunque costituito da alcune lastre scolpite che raffigurano scene della Passione di Cristo. Al centro c’è l’ampio pannello dedicato alla Cena del Signore, ispirantesi alle pagine del Vangelo di Giovanni.

È Giuda che, insieme a Gesù, sembra esserne il protagonista.

Ma un Giuda che disorienta, che confonde, che spiazza.

Non foss’altro che per quell’aureola, inaudita, stonata, che ancora circonda il suo capo, accomunandolo per l’ultima volta agli altri discepoli in quest’ultima cena. Ultima anche per lui.

O per quell’insolito pesce che l’Iscariota stringe in una mano, al posto della borsa con le trenta monete. Preda o dono? Furto od offerta? Soltanto Gesù può saperlo.

E la mano del Maestro sfiora le labbra del traditore, porgendogli alla bocca un pezzo di pane con un gesto di sconvolgente intimità, di cui lo stesso apostolo infedele pare sorprendersi.

Loro due come da soli, ora, nel cenacolo: «Quello che devi fare, fallo subito».

Cristo e Giuda, volto nel volto, sguardo nello sguardo.

Il momento esatto della raffigurazione è quello che segue l’annuncio del tradimento, quando Gesù, sollecitato dal discepolo prediletto, rivela che il traditore «“È colui per il quale intingerò il boccone e glielo darò”. E, intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda, figlio di Simone Iscariota» (Gv 13,26). Di dimensioni maggiori rispetto alle altre figure (la sua aureola, infatti, “invade” interamente la cornice superiore), Cristo stende dunque il braccio destro per infilare nella bocca di Giuda una porzione di cibo, mentre con l’altra mano afferra il calice. E l’apostolo rinnegato pare ricevere quell’offerta con un misto di sorpresa e di rassegnazione, ma anche di intimo timore, come palesa quella sua mano che nervosamente stringe la fascia sul petto.

Come a un banchetto di “gala”, ogni posto è segnato in alto dal nome del commensale, cosicché, per una volta, l’identificazione di tutti i presenti alla Cena risulta decisamente agevole. A sinistra dell’Iscariota troviamo dunque Giacomo (che regge un’ampolla), Taddeo (che impugna un coltello), Bartolomeo (che appoggia una mano sulla tavola), Tommaso (impegnato a tagliare una pagnotta). A destra di Gesù, invece, vediamo Pietro (con l’attributo inequivocabile delle chiavi), Andrea (che replica la postura di Bartolomeo), l’altro Giacomo (con una tazza in mano), Filippo (che pare porgergli la brocca), Matteo (che beve da una coppa) e infine Simone (che chiude la tavolata, l’unico di cui scorgiamo lo scranno su cui è seduto). Giovanni, naturalmente, è l’apostolo reclinato sul petto di Gesù, gli occhi chiusi come chi riposa tranquillo, una mano a reggere il gomito, l’altra appoggiata alla guancia.

Gli apostoli appaiono sistemati a coppie, l’uno rivolto verso l’altro; un efficace accorgimento per rendere la reazione smarrita dei discepoli all’annuncio che uno di loro tradirà il Signore: «I discepoli si guardavano l’un l’altro, non sapendo bene di chi parlasse» (Gv 13,22). L’effetto in qualche modo “straniante” che ne deriva – come se i presenti, cioè, fossero disinteressati a quanto sta avvenendo al centro della tavola – può anche essere letto come il tentativo di interpretare un altro passo del brano giovanneo, là dove si dice che, nonostante il gesto rivelatore compiuto da Cristo nei confronti di Giuda, «Nessuno dei commensali capì perché gli avesse detto questo» (Gv 13,28).

Curioso anche il fatto che, a questa mensa, soltanto due apostoli siano raffigurati nell’atto di cibarsi. Il primo è Giuda, naturalmente, e il secondo è Matteo. Due discepoli che potrebbero avere qualcosa in comune, a ben considerare, e cioè una certa consuetudine con il denaro: Matteo come ex gabelliere e pubblicano, Giuda come tesoriere del gruppo apostolico. Ma mentre il primo, come sappiamo, lasciò tutto per seguire Gesù, il secondo lo venderà per trenta pezzi d’argento. Cosicché l’uno beve qui la sua salvezza, l’altro mangia la sua dannazione.

Ecco, proprio quel boccone, a ben pensarci, è sconvolgente. Soprattutto perché, e lo capiamo subito, non ci troviamo di fronte a un mero espediente escogitato dal Maestro per “svelare” il traditore agli occhi degli apostoli. Quel gesto è un gesto d’amore. Secondo il galateo orientale, infatti, offrire un boccone a un commensale vuol dire esprimere una particolare premura per lui. Gesù, fino all’ultimo, cerca di toccare il cuore di chi sta per tradirlo. Giovanni, in questo contesto, ripete ben quattro volte la parola “boccone”. Colpisce, inoltre, come in greco il verbo “intingere” (bápto) usato dall’evangelista abbia la stessa radice di “battezzare”, così some i termini “prendere” e “dare” abbiano un connotato chiaramente eucaristico (ribadito anche dal calice che Gesù tiene in mano). Tanto che questa particolare scena raffigurata a Modena è indicata solitamente come la “Comunione di Giuda”.

Dalla mano di Cristo a quella di Giuda. Se, infatti, spostiamo la nostra attenzione più in basso, possiamo notare come il discepolo infedele tenga in mano un pesce. Il significato simbolico del pesce nell’ambito dell’Ultima Cena è un preciso riferimento al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci e ha, quindi, una spiccata valenza eucaristica. Perché, dunque, Giuda ha in mano quel pesce? Solo perché è un ladro (come detto al capitolo 12 del Vangelo di Giovanni)? Il traditore, in realtà, non fa nulla per nascondere la sua “preda”… Proviamo allora a rifarci al significato cristologico che il pesce assume fin dalle origini. Il fatto che Giuda lo stringa nella sua mano, così, potrebbe alludere alla cattura di Gesù che avverrà a breve proprio a opera dell’Iscariota (e per mezzo di quel bacio che ora l’apostolo fellone sembra “mimare” ingoiando il pezzo di pane che il Signore gli porge). Oppure, Giuda, tradendo il Cristo, se lo sta lasciando sfuggire di mano. E con esso, la sua salvezza…

La questione del pesce, tuttavia, non si esaurisce qui, né si limita al personaggio di Giuda. Perché nel pontile della cattedrale modenese anche Pietro, dall’altra parte stringe con la mano sinistra un pesce! Per il capo degli apostoli la cosa sembra meno problematica, avendo egli, in quanto pescatore di professione, una certa dimestichezza con barche e reti… È evidente, però, che anche qui il lapicida campionese voglia offrire un’ulteriore informazione simbolica della nuova responsabilità di Pietro, quale fondamento della Chiesa e vicario di Cristo. Se Giuda, insomma, “cattura” il pesce-Cristo per venderlo per trenta monete («mercante pessimo» recita l’inno ambrosiano dei vespri del giovedì santo), Pietro tiene invece ben saldo il suo Signore per porgerlo all’umanità intera. Cefa, infatti, è stato fatto da Gesù «pescatore di uomini», e proprio nell’epilogo del Vangelo di Giovanni viene perdonato dal Risorto (perché anche Pietro aveva in qualche modo tradito il suo Signore, rinnegandolo tre volte) e investito della cura di reggere in suo nome il gregge: «Pasci le mie pecore» (Gv 21,17).

Un’ultima suggestione, che ci deriva dalla constatazione che in diversi romanzi di cavalleria del XII e XIII secolo, coevi cioè alla balaustra di Modena, si parla della consegna di un pesce – un luccio, per l’esattezza – come singolare premio per il vincitore di un torneo. Cosa che si può spiegare con l’assonanza fra la parola “luccio”, che in antico francese è lus (dal latino lucius), con il termine che, appunto, designa una ricompensa: los (dal latino laus). Ci chiediamo, allora, seppur con tutte le cautele possibili, se nel caso di Giuda non siamo di fronte alla medesima situazione, dove cioè proprio quel pesce (il luccio-luslos) non sia una trasposizione semantica, ovvero un gioco di parole, per indicare il compenso ricevuto dall’Iscariota per il suo tradimento. A sostituire, insomma, con ben altro impatto simbolico, la consueta borsa dei denari che, in effetti, in questo Cenacolo non si vede…

Ma c’è ancora la questione dell’aureola, che circonda anche la testa di Giuda nel contesto dell’Ultima Cena, equiparandolo, di fatto, agli altri apostoli presenti. Nella lastra immediatamente successiva a quella della Santa Cena, però, dove con impressionante vivezza è raffigurata la cattura di Cristo, Giuda appare privo dell’aureola, assimilato ormai, anche nelle fattezze più marcatamente grottesche e sconvolte, a quegli sgherri mandati ad arrestare Gesù. Con un accorgimento di grande significanza, insomma, i maestri Campionesi, sotto la guida – naturalmente – di una committenza estremamente competente quanto a esegesi biblica e a questioni teologiche, ci mostrano Giuda privato della sua dignità apostolica soltanto al compimento della sua azione traditrice, quando infine rifiuta ogni possibilità di redenzione (che fino all’ultimo gli era stata offerta dal Signore), perseverando in quella tragica colpa che lo condanna.

E questo, evidentemente, seguendo ancora una volta il testo di Giovanni, che ricorda come, proprio dopo quel boccone dato da Gesù a Giuda, «Satana entrò in lui» (Gv 13,27).

E Giuda entrò in Satana. Letteralmente inghiottito.