Terza settimana di Quaresima. Osare il salto

Siamo alla terza settimana di Quaresima e lasciamo la parola alla prima lettura della liturgia del martedì – Genesi 19,12-29 – illustrata da due dei mosaici del Duomo di Monreale posti in controfacciata, sopra i due portali d’ingresso alla cattedrale.

Lot e i due angeli
mosaico sulla controfacciata della navata sinistra (1180-1189) – Duomo di Monreale, Sicilia
La distruzione di Sodoma
mosaico sulla controfacciata della navata destra (1180-1189) – Duomo di Monreale, Sicilia

12Quegli uomini dissero allora a Lot: «Chi hai ancora qui? Il genero, i tuoi figli, le tue figlie e quanti hai in città, falli uscire da questo luogo. 13Perché noi stiamo per distruggere questo luogo: il grido innalzato contro di loro davanti al Signore è grande e il Signore ci ha mandato a distruggerli». 14Lot uscì a parlare ai suoi generi, che dovevano sposare le sue figlie, e disse: «Alzatevi, uscite da questo luogo, perché il Signore sta per distruggere la città!». Ai suoi generi sembrò che egli volesse scherzare.

15Quando apparve l’alba, gli angeli fecero premura a Lot, dicendo: «Su, prendi tua moglie e le tue due figlie che hai qui, per non essere travolto nel castigo della città». 16Lot indugiava, ma quegli uomini presero per mano lui, sua moglie e le sue due figlie, per un grande atto di misericordia del Signore verso di lui; lo fecero uscire e lo condussero fuori della città. 17Dopo averli condotti fuori, uno di loro disse: «Fuggi, per la tua vita. Non guardare indietro e non fermarti dentro la valle: fuggi sulle montagne, per non essere travolto!». 18Ma Lot gli disse: «No, mio signore! 19Vedi, il tuo servo ha trovato grazia ai tuoi occhi e tu hai usato grande bontà verso di me salvandomi la vita, ma io non riuscirò a fuggire sul monte, senza che la sciagura mi raggiunga e io muoia. 20Ecco quella città: è abbastanza vicina perché mi possa rifugiare là ed è piccola cosa! Lascia che io fugga lassù – non è una piccola cosa? – e così la mia vita sarà salva». 21Gli rispose: «Ecco, ti ho favorito anche in questo, di non distruggere la città di cui hai parlato. 22Presto, fuggi là, perché io non posso far nulla finché tu non vi sia arrivato». Perciò quella città si chiamò Soar.

23Il sole spuntava sulla terra e Lot era arrivato a Soar, 24quand’ecco il Signore fece piovere dal cielo sopra Sòdoma e sopra Gomorra zolfo e fuoco provenienti dal Signore. 25Distrusse queste città e tutta la valle con tutti gli abitanti delle città e la vegetazione del suolo. 26Ora la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale.

27Abramo andò di buon mattino al luogo dove si era fermato alla presenza del Signore; 28contemplò dall’alto Sòdoma e Gomorra e tutta la distesa della valle e vide che un fumo saliva dalla terra, come il fumo di una fornace.

29Così, quando distrusse le città della valle, Dio si ricordò di Abramo e fece sfuggire Lot alla catastrofe, mentre distruggeva le città nelle quali Lot aveva abitato.”

Lot e i due angeli ci mostra i versetti immediatamente precedenti alla lettura che stiamo oggi commentando. Lot, che ha accolto come ospiti i due angeli giunti a proclamare la distruzione di Sodoma, esce dalla sua casa per cercare di convincere gli abitanti della città di non far loro del male. Tutto è inutile, però, perché quella gente, ormai totalmente permeata dal peccato e refrattaria a qualsiasi proposta di pentimento e conversione, cerca di aggredire Lot per entrare in casa a prendere i suoi ospiti: «Allora dall’interno quegli uomini sporsero le mani, si trassero in casa Lot e chiusero la porta; colpirono di cecità gli uomini che erano all’ingresso della casa, dal più piccolo al più grande, così che non riuscirono a trovare la porta» (Gen 19,10-11). I maestri mosaicisti di Monreale ci mostrano magistralmente il gioco di gesti e sguardi dei protagonisti dell’episodio biblico. Sono soprattutto gli occhi che catturano la nostra attenzione. Gli abitanti di Sodoma, a sinistra, e Lot, al centro, si guardano con grande intensità: i primi per intimare imperiosamente la consegna degli ospiti, con le dita minacciose puntate verso Lot e i volti contratti dal male (la figura centrale, soprattutto); il secondo per implorare loro, con le braccia spalancate, di rinunciare al male che hanno in animo di compiere. Infine, gli occhi degli angeli all’interno dell’abitazione, su due visi distesi e tristi, irenici quasi, che sembrano prendere atto – con rassegnazione, quasi – che in quella città non c’è, purtroppo, niente e nessuno per cui valga la pena di usarle misericordia. Anche nella tradizione ebraica c’è chi legge in questo modo questo episodio: Rav Joseph Beer Soloveitchik, vissuto nel secolo scorso, in una sua opera commenta che la strada per il pentimento, la Teshuvah (in ebraico תשובה‎, letteralmente “ritorno”), è sempre aperta per tutti i peccatori e che Dio aspetta pazientemente il loro ritorno (come non vedere qui un’anticipazione della parabola del Padre Misericordioso nel capitolo 15 del Vangelo di Luca?). Tuttavia, quando i peccatori diventano una vera e propria incarnazione del male, rifiutando qualsivoglia conversione, la loro sorte non può che essere la propria totale (auto)distruzione.

Sodoma, allora, diventa paradigma non tanto della collera e della punizione di Dio, quanto della sorte di coloro che, da se stessi, si “autodistruggono” perché scelgono – nell’esercizio della propria libertà – che sia il male e non il bene a guidare la propria esistenza.

Ricordiamo che questo episodio della distruzione di Sodoma viene subito dopo il capitolo 18 di Genesi, dove Abramo mercanteggia con un Dio adirato contro il peccato degli uomini che lì vivono e che ha deciso la sua distruzione. E Abramo osa contrastare tale scelta, attenuando la decisione di Dio: inizia chiedendo pietà per l’intera città nel caso si fossero trovati cinquanta giusti; e, passo dopo passo, fa sì che Dio cambi idea fino a dire: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci» (Gen 18,32) che Abramo spera di trovare – invano, purtroppo – in un’intera città. Ecco, allora, la buona notizia della Bibbia: Jahvè non è un Dio terribile, che usa quella logica di retribuzione che permeava le comunità dell’Antico Testamento. Jahvè è un Dio che accetta di mettersi in gioco di fianco all’uomo quando questo dimostra la volontà di essere giusto; è un Dio che incontra e ama gli uomini e che continuamente, anche di fronte ai nostri tradimenti, rinnova la sua alleanza con noi. In un mondo – quello di 4000 anni fa (ma è così tanto diverso dal nostro del XXI secolo, specie di fronte agli avvenimenti di queste settimane?) – fatto di società permeate dalla violenza, dove i padri uccidevano i loro primogeniti, offrendoli in sacrificio a Dio per garantirsi una discendenza numerosa, il Dio della Bibbia ci dice che non deve essere così: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente!» (Gen 22,12) intima ad Abramo affinché non uccida il figlio Isacco.

Il nostro è il Dio della vita!

Ma è un Dio che ferma volutamente la sua onnipotenza davanti alla libertà dell’uomo. È un Dio che accetta che l’uomo e la donna scelgano di andarsene – più che esserne cacciati – dal giardino di Eden (Genesi 3), ma che rimane in ogni caso al loro fianco; che non impedisce a Caino di uccidere il fratello (Genesi 4), proteggendone però la vita contro ogni forma di vendetta; che salva Noè in un mondo dove tutti gli hanno voltato le spalle (Genesi 6-9); che propone vie di salvezza per chi, come Lot, rifiuta di piegarsi alla logica del male e della sopraffazione (Genesi 19); che usa misericordia sulla grande città di Ninive che riconosce il proprio peccato e accetta di intraprendere un cammino di conversione (Giona 3-4).

In fondo, è proprio quello che ci insegna Gesù – colui che, solo, ci fa conoscere il volto d’amore di Dio («chi vede me, vede colui che mi ha mandato»: Gv 12,45) – con le Sue prime parole che l’evangelista Marco riporta nel suo Vangelo: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15).

È quello che i due angeli chiedono a Lot e alla sua famiglia («Alzatevi, uscite da questo luogo…»: Gen 19,14): la decisione di voltare le spalle al male e al peccato; la decisione di costruire una nuova vita fondata sulla fiducia nell’amore incondizionato di Dio. I suoi generi lo prendono per uno scherzo e si rifiutano di ascoltarlo. Moglie e figlie lo seguono, come ci mostra La distruzione di Sodoma. In esso, i maestri di Monreale sanno, con maestria, enfatizzare l’opposta reazione dei due coniugi: Lot, dai lineamenti virtuosi, è dinamicamente proteso in avanti e avanza con estrema energia nonostante l’età; la moglie, invece, incarna il dubbio e risulta immobile e passiva.

La sposa di Lot diventa quindi emblema della tentazione, sempre presente nell’uomo, di rifiutare il taglio deciso con il passato di peccato e di negarsi la conversione. Il male, metaforicamente rappresentato dalle città di Sodoma e Gomorra in fiamme, è presenza costante nella vita di ogni uomo il quale ha sempre, però, la possibilità di andare oltre, lasciandoselo alle spalle senza rimpianto, come avviene per Lot che avanza con decisione lungo il suo sentiero. La sua consorte, invece, si volta tornando con lo sguardo – quasi con nostalgia – a un passato di peccato, rifiutando così la possibilità di salvezza offerta da Dio (anche il mondo della Grecia antica considerava in modo negativo il gesto del guardarsi alle spalle: si pensi, per esempio, al mito di Orfeo ed Euridice).

Facciamo nostre, allora, le parole che Benedetto XVI rivolse, nel 2011, ai giovani che parteciparono alla Giornata Mondiale della Gioventù di Madrid. «Alla fine – disse papa Ratzinger – questi giovani erano visibilmente e “tangibilmente” colmi di una grande sensazione di felicità: il loro tempo donato aveva un senso; proprio nel donare il loro tempo e la loro forza lavorativa avevano trovato il tempo, la vita. E allora per me è diventata evidente una cosa fondamentale: questi giovani avevano offerto nella fede un pezzo di vita, non perché questo era stato comandato e non perché con questo ci si guadagna il cielo; neppure perché così si sfugge al pericolo dell’inferno. Non l’avevano fatto perché volevano essere perfetti. Non guardavano indietro, a se stessi. Mi è venuta in mente l’immagine della moglie di Lot che, guardando indietro, divenne una statua di sale. Quante volte la vita dei cristiani è caratterizzata dal fatto che guardano soprattutto a se stessi, fanno il bene, per così dire, per se stessi! E quanto è grande la tentazione per tutti gli uomini di essere preoccupati anzitutto di se stessi, di guardare indietro a se stessi, diventando così interiormente vuoti, statue di sale! Qui invece non si trattava di perfezionare se stessi o di voler avere la propria vita per se stessi. Questi giovani hanno fatto del bene – anche se quel fare è stato pesante, anche se ha richiesto sacrifici –, semplicemente perché fare il bene è bello, esserci per gli altri è bello. Occorre soltanto osare il salto. Tutto ciò è preceduto dall’incontro con Gesù Cristo, un incontro che accende in noi l’amore per Dio e per gli altri e ci libera dalla ricerca del nostro proprio io.» Che questa Quaresima, allora, ci permetta di riconoscere la presenza di Dio nella nostra quotidianità. E che da questo incontro possiamo riconoscere – come chiosavamo due settimane fa commentando la Creazione di Eva di Michelangelo (e sarà solo una coincidenza che subito sopra i due mosaici oggi commentati troviamo proprio la Creazione di Eva a sinistra ed Eva presentata ad Adamo a destra?) – di essere persone amate che solo in quanto tali potranno avere in sé il coraggio e la forza di amare a loro volta.