Seconda settimana di Quaresima. La luce di Cristo

In questa seconda settimana di Quaresima commentiamo la lettura vigiliare vespertina del sabato: Marco 9,2b-10. È il brano della Trasfigurazione di Gesù, che sarà anche letto, nelle versioni di Luca e Matteo, nei prossimi due sabati.
“2… Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro 3e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. 4E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. 5Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». 6Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. 7Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». 8E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
9Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. 10Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.”
L’opera che ci guiderà nella nostra riflessione è la Trasfigurazione, realizzata da Raffaello Sanzio tra il 1518 e il 1520 e conservata nella Pinacoteca Vaticana.

tempera grassa su tavola (405 x 278 cm) – Pinacoteca Vaticana, Città del Vaticano
Commissionata per la cattedrale di Narbonne dal cardinale Giulio de’ Medici, futuro papa Clemente VII, l’opera nacque per celebrare i santi Felicissimo e Agapito, la cui festa era il 6 agosto, giorno della solennità liturgica della Trasfigurazione. I due santi (che, secondo un’altra interpretazione, potrebbero invece essere i santi Giusto e Pastore, protettori della città) sono sul lato sinistro della scena, mentre contemplano, inginocchiati, Gesù trasfigurato.
Il dipinto, l’ultima grande opera realizzata dal maestro urbinate, non fu da lui completata, in quanto il grande pittore morì improvvisamente nel 1520. Il Vasari, nel suo Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori del 1550, ci racconta che la Trasfigurazione fu posta davanti al letto di morte di Raffaello.
In essa vengono rappresentati due episodi, temporalmente consecutivi, presenti in tutti e tre i Vangeli sinottici: sul registro superiore è rappresentata la trasfigurazione di Gesù, opera del maestro di Urbino; la parte inferiore, invece, fu completata dal suo collaboratore Giulio Romano e mostra la successiva liberazione del fanciullo indemoniato (per Luca soltanto avvenuta il giorno successivo).
Nel dipinto c’è una voluta antitesi tra alto e basso, tra luce e buio, tra divino e umano; ma è proprio la loro complementarietà che permette di trovare l’equilibrio per questa dicotomia. Complementarietà – simbolica e concettuale – che è messa in evidenza dalla specularità delle due scene rappresentate, inscritte in due perfetti cerchi che si incrociano geometricamente nel centro dell’opera.
Come messo in evidenza dalla luce del sole sul paesaggio sullo sfondo, la scena si svolge al tramonto. Su un’alta roccia troviamo otto figure maschili. Ai piedi dell’altura, invece, abbiamo una piccola folla con diciannove personaggi divisi in due gruppi tra loro contrapposti. Nel primo, ci sono i nove apostoli che sono rimasti ad attendere sia il Maestro, sia i tre compagni che lo hanno seguito (Pietro, Giovanni e Giacomo; gli stessi che troveremo con Gesù sia alla resurrezione della figlia di Giàiro che nell’orto del Getsemani); nel secondo gruppo, gli otto parenti del fanciullo epilettico e la giovane vittima del demonio. Al centro, una donna, di spalle e con posa contorta, indica il ragazzo con entrambe le mani.
Molti sono i simboli nascosti da Raffaello nella sua opera.
Sul Monte Tabor, la parte superiore del dipinto, le figure sono otto, numero che indica l’infinito e che vuole così rappresentare la dimensione trascendente in cui sono immersi i vari personaggi.
La scena che si svolge sopra la roccia è prefigurazione della gloria del regno di Dio. Con alle spalle una nube radiosa, Gesù appare splendente di luce. In realtà, però, è proprio Lui che illumina la scena; è Lui la vera fonte di luce del quadro e – ci vuol ricordare Raffaello – della vita di fede di ogni discepolo.
Sotto Gesù troviamo Pietro, Giovanni e Giacomo: sdraiati e abbagliati dalla sfolgorante luce scaturita dal Maestro. L’urbinate ha voluto rappresentare tre peccatori che – sebbene, come qualunque essere umano, siano deboli, provati e inadatti –, nonostante tutto, sono invitati direttamente dal Figlio di Dio a contemplare il mistero divino della Trasfigurazione. In rappresentanza di ognuno di noi, i tre apostoli sono lì per ricordarci che Dio ha creato l’uomo per la trascendenza. Nonché per ricordarci che l’essere umano è stato creato a immagine e somiglianza di Dio e che Suo Figlio, con la Sua incarnazione, ha riportato la natura umana, decaduta a causa del primordiale peccato di ribellione, alla sua primitiva dignità.
Accanto a Gesù, in levitazione, vediamo Mosè ed Elia. Il primo, con in mano le tavole dei dieci comandamenti, è simbolo della legge; il secondo, che regge un libro, rappresenta invece i profeti. Incarnano entrambi il Vecchio Testamento che precede, profetizza e accoglie il Cristo e da Lui, nel Nuovo Testamento, viene portato a compimento. Essi sono accanto a Gesù per confortarlo e prepararlo alla terribile prova della croce che di lì a poco lo attende. Mosè ed Elia conoscono bene il rifiuto degli uomini che Gesù fra non molto sperimenterà. Entrambi hanno avuto a che fare con un passaggio, con un esodo: Mosè dalla schiavitù degli egiziani alla libertà attraverso il deserto; Elia dalla terra al cielo con un carro di fuoco. Anche Gesù deve affrontare un esodo, attraverso la sofferenza della croce, per poter infine risorgere e aprire all’umanità intera la strada che conduce alla redenzione e alla vita eterna. E chi, allora, se non Mosè ed Elia, possono ricordare a Gesù che la Sua missione è destinata a essere vittoriosa anche dopo tanto dolore?
Ai piedi del Monte Tabor, invece, Raffaello aveva pensato una diversa vicenda, nella quale due gruppi di persone si confrontano. Ben diversamente dal registro superiore, questa scena è immersa nell’ombra. I gesti di tutti i personaggi rivelano agitazione, sgomento, timore. I parenti del ragazzo epilettico si rivolgono ai discepoli di Gesù perché lo guariscano. Ma loro non possono far altro che riconoscere di non esserne capaci: indicando verso l’alto, due di loro ammettono che è necessario attendere Gesù, che si trova sulla cima del monte.
I gesti di tutti sono convulsi: uno degli apostoli e la donna di spalle indicano il ragazzo; altri due discepoli, come già detto, la sommità del monte. Nessuno di loro, però, sa che cosa sta accadendo in cima al Monte Tabor. È solo il ragazzo che, pur con il volto deformato dal male e con gli occhi strabici, sembra in grado di poter scorgere ciò che sta succedendo. È lui, nel dipinto, l’antitesi di Cristo, Dio e uomo perfetto. Con il corpo deformato e trasfigurato dal male, il giovane ossesso ha perduto la dignità e la santità donata all’umanità dal Creatore. L’epilessia diviene quindi metafora della trasformazione demoniaca dell’anima umana, distrutta e umiliata dal peccato, in contrapposizione al progetto originario di Dio, che desidera e crea armonia, bellezza e amore. Il demonio, espresso nella malattia, trasforma il ragazzo, immergendolo nel dolore.
E Raffaello ce lo mostra magistralmente: da una parte il Messia è raggiante e dotato di una sovrumana bellezza; dall’altra il ragazzo epilettico è contorto, strabico e oppresso dal maligno, che odia la creazione e l’uomo, in modo particolare. Tra di loro, la distanza sembra essere abissale.
Eppure, pur immerso in questa ombra, nella pozzanghera dipinta nell’angolo a sinistra in basso, appare un piccolo scintillìo di luce, che è stato da più parti interpretato come un riflesso della luce lunare (si ricordi che ai tempi di Raffaello si pensava che l’epilessia avesse a che fare con la luna, tanto che la malattia veniva chiamata “morbus lunaticus”). E allora, perché non vedere – là, dove alcuni hanno visto brillare la luna –, proprio sotto il Vangelo tenuto saldamente in mano dall’apostolo Matteo, un riflesso della luce divina che giunge sulla terra dal Monte Tabor, dove avviene la trasfigurazione di Cristo? È proprio sotto il Vangelo – che ci permette di conoscere, attraverso Gesù, il Padre – che la luce scintilla, pur in mezzo al fango di cui noi uomini siamo permeati. È solo facendo nostre le prime parole che Gesù rivolge a noi nel Vangelo di Marco – «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15) – che permettiamo alla luce della trascendenza di raggiungere e illuminare le ombre che noi uomini troppo spesso sembriamo preferire.
Una sola figura, più luminosa delle altre, emerge dal buio del registro inferiore del dipinto: la donna. È in posizione detta “serpentina”, nome che evoca il serpente della Genesi che spinse al peccato il genere umano. Raffaello ha forse voluto rappresentare anche il demonio, causa di tutti i mali degli uomini? Parrebbe di sì, vista anche la posizione della figura, posta a “dividere” i due gruppi di persone della parte bassa del dipinto: quello che rappresenta la Chiesa (gli apostoli) e quello che simboleggia il popolo di Dio (il ragazzo malato e i suoi parenti). Ricordiamo che la parola “diavolo” deriva dal verbo greco διαβάλλω (diabàllo) che significa separare, porre barriera, porre frattura. L’interpretazione è senza dubbio suggestiva e sembra essere in qualche modo rafforzata dallo sguardo sbigottito e allarmato dell’evangelista Matteo, che la sta fissando: che motivo avrebbe di farlo, se non percepisse, in cuor suo, che non si tratta di una semplice creatura umana, bensì di un dèmone?
Una seconda considerazione legata ai numeri… Nove apostoli, a sinistra, si contrappongono a nove uomini del popolo, sulla destra. Il numero nove, l’ultima cifra singola, è simbolo del limite invalicabile della materia: Raffaello, in questo caso, ci vuole ricordare come la materia – così come i limiti del nostro essere creature – sia presente nell’umanità dei membri della Chiesa (i nove apostoli) e del popolo (il ragazzo coi suoi parenti).
Una prima lettura di questo ultimo dipinto di Raffaello potrebbe portarci a pensare che il pittore abbia voluto rappresentare l’antitesi tra immanenza e trascendenza, tra la condizione umana e quella divina: tanto misera la prima, quanto gloriosa e inaccessibile la seconda. In realtà l’ultimo messaggio che l’urbinate ha voluto lasciarci prima della morte è di considerare quanto possa essere importante, nella nostra esistenza, la luce. È grazie ad essa che si può arrivare alla sintesi tra le due condizioni, quella umana e quella divina: perché la luce del Creatore, pur immergendosi nelle tenebre delle creature, non ne può essere sopraffatta. Solo cercando e trovando la luce – per quanto fioca possa essere – si può sfuggire a un destino di oscurità; e la luce si mostra anche nel cuore delle tenebre, per guidare e salvare le creature che Dio ama.
Unica condizione è la fede! Quella fede che è mancata ai nove apostoli per essere capaci di guarire il ragazzo senza dover attendere l’intervento diretto di Gesù. Quella fede che – ci racconta Raffaello con questa sua opera – può squarciare le tenebre più fitte e inondarle di splendore.
Che questa Quaresima, allora, ci permetta di imparare a volgere in alto il nostro sguardo e di scoprire la luce – pur fievole, a volte – presente nella nostra quotidianità.