Quinta settimana di Quaresima. Giuseppe e i fratelli

La prima lettura del giovedì di questa quinta settimana di Quaresima ci presenta la conclusione del libro della Genesi (Genesi 50,16-26), con la definitiva riconciliazione tra Giuseppe e i suoi fratelli e con la morte di Giacobbe.
“16Allora mandarono a dire a Giuseppe: «Tuo padre prima di morire ha dato quest’ordine: 17«Direte a Giuseppe: Perdona il delitto dei tuoi fratelli e il loro peccato, perché ti hanno fatto del male!». Perdona dunque il delitto dei servi del Dio di tuo padre!». Giuseppe pianse quando gli si parlò così. 18E i suoi fratelli andarono e si gettarono a terra davanti a lui e dissero: «Eccoci tuoi schiavi!». 19Ma Giuseppe disse loro: «Non temete. Tengo io forse il posto di Dio? 20Se voi avevate tramato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso. 21Dunque non temete, io provvederò al sostentamento per voi e per i vostri bambini». Così li consolò parlando al loro cuore.
22Giuseppe con la famiglia di suo padre abitò in Egitto; egli visse centodieci anni. 23Così Giuseppe vide i figli di Èfraim fino alla terza generazione e anche i figli di Machir, figlio di Manasse, nacquero sulle ginocchia di Giuseppe. 24Poi Giuseppe disse ai fratelli: «Io sto per morire, ma Dio verrà certo a visitarvi e vi farà uscire da questa terra, verso la terra che egli ha promesso con giuramento ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe». 25Giuseppe fece giurare ai figli d’Israele così: «Dio verrà certo a visitarvi e allora voi porterete via di qui le mie ossa».
26Giuseppe morì all’età di centodieci anni; lo imbalsamarono e fu posto in un sarcofago in Egitto.”

originariamente: nella residenza Bartholdy in palazzo Zuccari, Roma; oggi: nella Alte Nationalgalerie, Berlino
Qualche parola sul pittore e disegnatore tedesco Peter Cornelius, autore dell’affresco che ci guiderà nell’odierna riflessione, e che è sicuramente sconosciuto ai più. Nato nel 1783, per la sua formazione artistica fondamentali furono i contatti con l’ambiente romantico tedesco attraverso i quali conobbe l’arte primitiva tedesca e fiamminga e maturò la sua poetica basata sull’ideale cristiano e sulla tradizione germanica. Tra il 1811 e il 1818 soggiornò a Roma ed ebbe rapporti con i “Nazareni”, nome dato a un gruppo di pittori romantici tedeschi che aspiravano a un’arte rinnovata su basi religiose e patriottiche. Con uno stile che si voleva rifare – in modo quasi filologico – a quello degli artisti quattrocenteschi italiani – da Beato Angelico a Filippo Lippi, da Luca Signorelli al Perugino e, soprattutto, al primo Raffaello –, tutti loro volevano rinnovare la cultura figurativa tedesca, in un ideale che vedeva l’arte al servizio della vita civile e religiosa e la tecnica dell’affresco come il mezzo più efficace per raggiungerlo. A Roma collaborò alla decorazione della residenza del console Bartholdy: tra gli affreschi di palazzo Zuccari (oggi staccati e custoditi nella Alte Nationalgalerie di Berlino) c’era anche Giuseppe si rivela ai fratelli.
«Giuseppe all’età di diciassette anni pascolava il gregge con i suoi fratelli. […] I suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non riuscivano a parlargli amichevolmente.» (Gen 37,2-4): così inizia la storia piena di avventure e colpi di scena di questo figlio che il patriarca Giacobbe/Israele aveva avuto da Rachele, la moglie più amata (Gen 30,24). È una storia straordinaria, che ha affascinato miriadi di artisti (uno fra tutti: lo scrittore tedesco Thomas Mann – premio Nobel per la letteratura nel 1929 – che, tra il 1933 e il 1943, scrisse Giuseppe e i suoi fratelli, un’opera imponente che coinvolge storia e teologia, natura e spirito, politica ed etica), che porta Giuseppe, venduto come schiavo dai fratelli, ad ascendere alla carica di viceré d’Egitto. Quando i suoi fratelli sono costretti, a causa della carestia che colpisce la terra di Canaan, ad andare in Egitto in cerca di cibo se lo ritrovano davanti, senza però riconoscerlo. È lo stesso Giuseppe che si rivela: «Giuseppe disse ai fratelli: “Io sono Giuseppe! È ancora vivo mio padre?”. Ma i suoi fratelli non potevano rispondergli, perché sconvolti dalla sua presenza. Allora Giuseppe disse ai fratelli: “Avvicinatevi a me!”.» (Gen 45,3-4). Ed è proprio questo il momento che Peter Cornelius ritrae nel suo affresco: con gusto fortemente romantico ci mostra con estrema precisione ciò che l’autore biblico scrive nel capitolo 45 della Genesi: «Allora egli si gettò al collo di suo fratello Beniamino e pianse. Anche Beniamino piangeva, stretto al suo collo. Poi baciò tutti i fratelli e pianse. Dopo, i suoi fratelli si misero a conversare con lui.» (Gen 45,14-15). Lo stesso Giacobbe viene poi condotto in Egitto, dove muore assistito da Giuseppe; e viene infine riportato dagli altri fratelli nella terra di Canaan per esservi seppellito.
E qui si inserisce il brano dell’odierna liturgia, la cui prima parte è alquanto sorprendente. Il versetto precedente, infatti, dice: «Ma i fratelli di Giuseppe cominciarono ad aver paura, dato che il loro padre era morto, e dissero: “Chissà se Giuseppe non ci tratterà da nemici e non ci renderà tutto il male che noi gli abbiamo fatto?”» (Gen 50,15). Senza la protezione della rassicurante presenza del padre, i fratelli temono che Giuseppe abbia in animo di vendicarsi dell’antico delitto contro di lui compiuto. Si fanno precedere, allora, da un messaggio in cui viene ribadita l’estrema volontà di Giacobbe il cui desiderio era che Giuseppe perdonasse i fratelli («Perdona il delitto dei tuoi fratelli […] Perdona dunque il delitto dei servi del Dio di tuo padre!»: v. 17). È una vera e propria supplica, nella quale, per ben due volte, si rimarca il tema del perdono. Ci sorprende questa loro paura, perché nei capitoli precedenti – e, soprattutto, nei versetti raffigurati nell’affresco di Cornelius – il racconto biblico sembrava aver completamente dissolto tale timore nel grande e intenso abbraccio della riconciliazione.
Riconciliazione che, in ogni caso, viene ribadita in modo inequivocabile e definitivo da Giuseppe con parole di forte afflato spirituale (vv. 20-21). Da esse emerge non solo un’esemplare figura di sapiente, ma anche la lezione che egli vuol trarre dall’intera sua vicenda umana. Come ci insegna il cardinal Ravasi in un suo intervento, “le sue parole non sono solo di perdono ma diventano una lezione di teologia sulla provvidenza divina che guida la storia”: «Dio mi ha mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza nella terra e per farvi vivere per una grande liberazione. Dunque non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio» (Gen 45,7-8).
Non è casuale che proprio con questo episodio termini il libro della Genesi, libro paradigmatico per l’intera storia dell’uomo. Questo primo libro della Bibbia ci mostra un intrecciarsi continuo di violenza, tradimenti e gelosie: il peccato di Adamo ed Eva (cap. 3); il fratello che uccide il fratello (Caino e Abele, cap. 4); la corruzione dell’umanità e il conseguente diluvio (capp. 6-9); l’orgogliosa sfida a Dio della torre di Babele (cap. 11); le fatiche di Lot, Abramo e Isacco per rimanere giusti in un mondo ostile; l’astuzia al limite della fraudolenza di Giacobbe nel carpire la primogenitura e la benedizione del padre; l’invidia e l’odio dei fratelli di Giuseppe nei suoi confronti. Ma è anche il libro che ci mostra come tutte queste vicende siano tra loro unite e guidate dal fil rouge dell’amore di Dio per le sue creature e dall’incessante e paziente conferma della sua alleanza con noi, “popolo di dura cervice” (cfr. Es 32, Es 33, Es 34, Dt 9, “Cr 30, Sir 16, Bar 2).
Non è allora casuale, dicevo, che il sigillo finale sulle vicende raccontate nel libro della Genesi venga posto dalla conferma del perdono di Giuseppe ai fratelli e da parole – «Se voi avevate tramato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene» (v. 20) – che invitano ciascuno di noi a vedere dispiegato il progetto di Dio nella storia umana e nella nostra quotidianità. Quotidianità nella quale siamo chiamati a consegnarci con fiducia all’amore fedele di un Dio che ci ha creati e che sempre vuole il nostro bene. Di un Dio che ci chiede di cambiare il nostro cuore, così come fanno i fratelli di Giuseppe nel momento dell’incontro con lui, momento così magistralmente ritratto da Cornelius.
Rutilante nell’intero spettro cromatico, l’affresco dell’artista tedesco coglie il momento del disvelamento di Giuseppe, nelle sue vesti di viceré d’Egitto, che si fa riconoscere dai fratelli, i quali, subito prima, non avendo capito chi fosse, si erano detti pronti a offrire se stessi in cambio della richiesta di Giuseppe di tenere con sé in Egitto Beniamino, il figlio più giovane e prediletto di Giacobbe. Questo loro gesto diventa segno esplicito ed evidente della conversione di questi uomini che, in passato, non avevano esitato a vendere il fratello come schiavo, facendo credere al padre che fosse morto. Loro che, un tempo, avevano tradito fratello e padre, sono ora disposti, per un altro fratello, a dare la vita. Cornelius dipinge l’abbraccio di Giuseppe con Beniamino, in un intenso gioco di sguardi, che coinvolge anche gli altri dieci fratelli, alcuni inginocchiati ai piedi di Giuseppe, altri in piedi, ancora timorosi del perdono ricevuto. In essi l’artista riesce a rappresentare la fatica – che fa parte del nostro quotidiano – del comprendere un gesto d’amore: quante volte facciamo fatica a chiedere perdono e abbiamo paura di riceverlo, diffidando di chi sembra concederlo gratuitamente… quante volte, come i fratelli di Giuseppe, fatichiamo a lasciare i nostri schemi umani per ragionare come Dio ci insegna…quante volte facciamo fatica a intraprendere un cammino di conversione del nostro cuore…
Giuseppe chiude il libro della Genesi – che, come detto, mette a nudo le nostre fragilità e le nostre infedeltà – con un gesto emblematico, concedendo per la seconda volta il suo perdono e mostrando che è possibile amare senza ‘se’ a senza ‘ma’. Diventa prefigurazione di ciò che Gesù ci insegna nei Vangeli: «”Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe”» (Mc 11,25); «Pietro gli si avvicinò e gli disse: “Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?” E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.”» (Mt 18,22). Diventa esemplare, allora, la storia di Giuseppe: in essa, il male e il bene s’intrecciano e alla fine rifulge l’amore. Come commentava sant’Ambrogio: «Che amore fraterno, che dolce paternità in Giuseppe: scusare anche il delitto di fratricidio dicendolo strumento della divina provvidenza e non dell’umana empietà!».
Un’ultima considerazione sui colori. Abbiamo sottolineato il pieno utilizzo della tavolozza che contraddistingue l’affresco di Cornelius, quasi volesse rappresentare l’intero spettro cromatico. E che dire, allora di un altro dipinto, quello con cui Sieger Köder – altro pittore tedesco, ma del XX secolo stavolta – ci mostra l’incontro di Giuseppe con i fratelli? Perché non pensare che l’artista abbia voluto richiamare tutti i colori dell’iride, che è il segno dell’alleanza di Dio con noi («Dio disse: “Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni essere vivente che è con voi, per tutte le generazioni future. Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra.»: Gen 9,12-13)? Il diluvio è finito e Dio lascia a Noè e ai suoi discendenti proprio l’arcobaleno come segno tangibile del suo amore fedele. Nei visi di questo dipinto Köder sottolinea i diversi sentimenti dei fratelli: ringraziamento, stupore, paura, ansia… Ma è, soprattutto, il sapiente utilizzo dei colori che ci colpisce: con esso l’artista vuole sottolineare che la nostra capacità di amare può nascere solo da un Amore più grande; che è solo in Dio – fedele sempre, nonostante tutto e nonostante l’uomo – che dobbiamo riporre la nostra fiducia. Solo Lui è capace di un Amore vero; e solo in Lui ognuno di noi può trovare la forza di perdonare e di amare i fratelli, trasformando in opportunità ogni esperienza, anche quella che apparentemente nasce dal male.
