Quarta settimana di Quaresima. Lotta e perseveranza

In questa quarta settimana di Quaresima commentiamo la prima lettura del mercoledì – Genesi 32,23-33 –, che ci presenta il misterioso racconto della lotta di Giacobbe con “un uomo” al guado di un torrente.
“23Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici bambini e passò il guado dello Iabbok. 24Li prese, fece loro passare il torrente e portò di là anche tutti i suoi averi. 25Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. 26Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. 27Quello disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!». 28Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». 29Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». 30Giacobbe allora gli chiese: «Svelami il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse. 31Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuèl: «Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva». 32Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuèl e zoppicava all’anca. 33Per questo gli Israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico, che è sopra l’articolazione del femore, perché quell’uomo aveva colpito l’articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico.”

olio su tela, cm. 140 x 178,5 – Museo Diocesano, Milano
Strano e sconvolgente episodio, questo che chiude il capitolo 32 del Libro della Genesi. È un brano non semplice da interpretare, ma importante per la nostra vita di fede e di preghiera: si tratta del racconto della lotta di Giacobbe con Dio al guado dello Iabbok (“fiume blu”, questo il significato del termine ebraico), un affluente del Giordano. Nei capitoli precedenti, Giacobbe aveva sottratto al suo gemello Esaù la primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie e aveva poi carpito con l’inganno la benedizione del padre Isacco, ormai anziano e cieco. Per sfuggire alla collera del fratello, si era rifugiato presso un parente, Labano, dove si era sposato e arricchito. Con prudenza, sapendo che l’ira di Esaù non si è ancora placata, sta ora tornando da lui, pronto ad affrontarlo. In questa atmosfera di tensione si inserisce un episodio di grande potenza e fascino, ambientato di notte al guado del torrente che delimitava il territorio di Esaù. Dopo averlo attraversato, Giacobbe, rimasto solo, viene aggredito improvvisamente da uno sconosciuto con il quale lotta per l’intera notte. In verità, il patriarca sa bene che sta lottando con un uomo che non è tale; ma non cede, né si lascia intimorire. Noi, invece, facciamo fatica a capire. Tutto è misterioso, e noi assistiamo stupiti, attoniti. E riusciamo davvero ad “assistere” grazie a uno dei dipinti più significativi della produzione di Pier Francesco Mazzucchelli, detto il Morazzone, uno dei maggiori pittori italiani dell’età della Controriforma.
Nella Lotta di Giacobbe con l’angelo, databile all’incirca al 1610, il pittore lombardo realizza un’opera che, pur mostrandosi estremamente vigorosa, è capace di mantenere una squisita eleganza, così rivelando l’influsso dell’arte di Gaudenzio Ferrari, col quale il Morazzone lavorò al Sacro Monte di Varallo. C’è qui, però, molto di più: in quest’opera è evidente una tensione mistica, un’ansia religiosa che scorre nelle membra delle figure e che scivola sui loro abiti dai riflessi metallici. Il dipinto, custodito al Museo Diocesano di Milano e appartenente alla collezione del cardinal Monti – raffinato collezionista e premuroso pastore della diocesi ambrosiana nella prima metà del Seicento –, è un’opera di grande bellezza, capace di coinvolgere e incantare. Il pittore lombardo costruisce la lotta su un sapiente intreccio di linee oblique e parallele e gioca con la contrapposizione dinamica fra le due figure contorte dell’angelo e del vecchio Giacobbe, tra loro avvinghiate in una lotta estenuante. Il volto di Giacobbe, segnato da rughe profonde, ha la fronte corrucciata e lo sguardo duro. I muscoli sono tesi, i piedi ben saldi a terra, le braccia stringono in una morsa. Quello che il versetto 25 indica genericamente come “un uomo” viene qui ritratto come un angelo e si dibatte, piegandosi e contorcendosi, cercando di strappare da sé le mani del patriarca. La posa, artificiosa e forzata, è evidenziata dall’estremo allungamento degli arti e delle braccia muscolose, mostrando chiari influssi tardomanieristi. Dietro di loro, l’alba sta per squarciare le tenebre notturne, gettando bagliori improvvisi che illuminano il volto del patriarca, la capigliatura morbida e riccia dell’angelo (che mostra l’influenza della pittura di Gaudenzio Ferrari), un polso, lembi delle vesti dei due contendenti, la gamba slogata di Giacobbe. «Lasciami andare!», urla l’essere divino. E quel grido imperioso attraversa i nostri sguardi per risuonare nel nostro intimo. Ma il patriarca, seppur ferito, non ha nessuna intenzione di mollare. Sa che proprio qui e ora, in quest’istante, si gioca tutta la sua vita e, con essa, quella di un intero popolo. «Non ti lascerò se non mi avrai benedetto», ribatte con tutta la forza che gli è rimasta in corpo. Cosa straordinaria e inaudita nella relazione tra Dio e l’uomo.
Lasciamoci guidare da una catechesi che Papa Benedetto XVI ci ha proposto durante l’Udienza Generale del 25 maggio 2011. «La notte è il tempo favorevole per agire nel nascondimento,» insegnava il Pontefice «il tempo, dunque, migliore per Giacobbe, per entrare nel territorio del fratello senza essere visto e forse con l’illusione di prendere Esaù alla sprovvista. Ma è invece lui che viene sorpreso da un attacco imprevisto, per il quale non era preparato. […] Si trova ora ad affrontare una lotta misteriosa che lo coglie nella solitudine e senza dargli la possibilità di organizzare una difesa adeguata. […] Il testo non specifica l’identità dell’aggressore; usa un termine ebraico che indica “un uomo” in modo generico, “uno, qualcuno” […]. È buio, Giacobbe non riesce a vedere distintamente il suo contendente e anche […] per noi, esso rimane ignoto; qualcuno sta opponendosi al patriarca […]. Solo alla fine, quando la lotta sarà ormai terminata e quel “qualcuno” sarà sparito, solo allora Giacobbe lo nominerà e potrà dire di aver lottato con Dio. L’episodio si svolge dunque nell’oscurità ed è difficile percepire non solo l’identità dell’assalitore di Giacobbe, ma anche quale sia l’andamento della lotta. Leggendo il brano, risulta difficoltoso stabilire chi dei due contendenti riesca ad avere la meglio; i verbi utilizzati sono spesso senza soggetto esplicito, e le azioni si svolgono in modo quasi contraddittorio, così che, quando si pensa che sia uno dei due a prevalere, l’azione successiva subito smentisce e presenta l’altro come vincitore. All’inizio, infatti, Giacobbe sembra essere il più forte, e l’avversario […] “non riusciva a vincerlo” (v. 26); eppure colpisce Giacobbe all’articolazione del femore, provocandone la slogatura. Si dovrebbe allora pensare che Giacobbe debba soccombere, ma invece è l’altro a chiedergli di lasciarlo andare; e il patriarca rifiuta, ponendo una condizione: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!” (v. 27). Colui che con l’inganno aveva defraudato il fratello della benedizione del primogenito, ora la pretende dallo sconosciuto […]. Il rivale, che sembra trattenuto e dunque sconfitto da Giacobbe, invece di piegarsi alla richiesta del patriarca, gli chiede il nome: “Come ti chiami?”. E il patriarca risponde: “Giacobbe” (v. 28). Qui la lotta subisce una svolta importante. Conoscere il nome di qualcuno, infatti, implica una sorta di potere sulla persona, perché il nome, nella mentalità biblica, contiene la realtà più profonda dell’individuo, ne svela il segreto e il destino. Conoscere il nome vuol dire allora conoscere la verità dell’altro e questo consente di poterlo dominare. Quando dunque, alla richiesta dello sconosciuto, Giacobbe rivela il proprio nome, si sta mettendo nelle mani del suo oppositore, è una forma di resa, di consegna totale di sé all’altro. Ma in questo gesto di arrendersi anche Giacobbe paradossalmente risulta vincitore, perché riceve un nome nuovo, insieme al riconoscimento di vittoria da parte dell’avversario, che gli dice: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!” (v. 29). “Giacobbe” era un nome che richiamava l’origine problematica del patriarca; in ebraico, infatti, ricorda il termine “calcagno”, e rimanda il lettore al momento della nascita di Giacobbe, quando, uscendo dal grembo materno, teneva con la mano il calcagno del fratello gemello (cfr. Gen 25,26), quasi prefigurando lo scavalcamento ai danni del fratello che avrebbe consumato in età adulta; ma il nome Giacobbe richiama anche il verbo “ingannare, soppiantare”. Ebbene, ora, nella lotta, il patriarca rivela al suo oppositore, in un gesto di consegna e di resa, la propria realtà di ingannatore, di soppiantatore; ma l’altro, che è Dio, trasforma questa realtà negativa in positiva: Giacobbe l’ingannatore diventa Israele, gli viene dato un nome nuovo che segna una nuova identità. Ma anche qui, il racconto mantiene la sua voluta duplicità, perché il significato più probabile del nome Israele è “Dio è forte, Dio vince”. Dunque Giacobbe ha prevalso, ha vinto – è l’avversario stesso ad affermarlo – ma la sua nuova identità, ricevuta dallo stesso avversario, afferma e testimonia la vittoria di Dio. E quando Giacobbe chiederà a sua volta il nome al suo contendente, questi rifiuterà di dirlo, ma si rivelerà in un gesto inequivocabile, donando la benedizione. Quella benedizione che il patriarca aveva chiesto all’inizio della lotta gli viene ora concessa. E non è la benedizione ghermita con inganno, ma quella gratuitamente donata da Dio, che Giacobbe può ricevere perché ormai solo, senza protezione, senza astuzie e raggiri, si consegna inerme, accetta di arrendersi e confessa la verità su se stesso. Così, al termine della lotta, ricevuta la benedizione, il patriarca può finalmente riconoscere l’altro, il Dio della benedizione: “Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva” (v. 31), e può ora attraversare il guado, portatore di un nome nuovo ma “vinto” da Dio e segnato per sempre, zoppicante per la ferita ricevuta. […] L’episodio della lotta allo Iabbok si offre così al credente come testo paradigmatico in cui il popolo di Israele parla della propria origine e delinea i tratti di una particolare relazione tra Dio e l’uomo. Per questo, come affermato anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica, “la tradizione spirituale della Chiesa ha visto in questo racconto il simbolo della preghiera come combattimento della fede e vittoria della perseveranza” (n. 2573). Il testo biblico ci parla della lunga notte della ricerca di Dio, della lotta per conoscerne il nome e vederne il volto; è la notte della preghiera che con tenacia e perseveranza chiede a Dio la benedizione e un nome nuovo, una nuova realtà frutto di conversione e di perdono. […] La preghiera richiede fiducia, vicinanza, quasi in un corpo a corpo simbolico non con un Dio nemico, avversario, ma con un Signore benedicente che rimane sempre misterioso, che appare irraggiungibile. Per questo l’autore sacro utilizza il simbolo della lotta, che implica forza d’animo, perseveranza, tenacia nel raggiungere ciò che si desidera. E se l’oggetto del desiderio è il rapporto con Dio, la sua benedizione e il suo amore, allora la lotta non potrà che culminare nel dono di se stessi a Dio, nel riconoscere la propria debolezza, che vince proprio quando giunge a consegnarsi nelle mani misericordiose di Dio».