L’incredulità di san Tommaso. Domenica in Albis Depositis

Sono innumerevoli gli artisti che hanno riflettuto sulla figura di san Tommaso: l’intera storia dell’arte è piena di pittori che si sono cimentati con la figura dell’apostolo incredulo.

Tutti, o quasi conosciamo, in particolare, la splendida Incredulità di San Tommaso, realizzata nel 1600 o 1601 da Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, oggi custodita in Germania nella Bildergalerie di Potsdam. È, questo, un quadro che segna uno spartiacque nell’interpretazione iconografica di tale episodio evangelico. C’è un prima, quando gli artisti che si sono messi alla prova con questa scena del Vangelo di Giovanni – ricordiamo, fra i tanti, Duccio di Buoninsegna, Francesco Salviati, Maarten de Vos –, tranne in rare eccezioni, l’hanno quasi sempre ritratta senza tralasciare di inserirla nel contesto dell’apparizione di Gesù a tutti i discepoli. E c’è un dopo (si pensi che del dipinto del Caravaggio si contano ben 24 copie realizzate negli anni successivi: quasi un record, che assume ancor più valore se si pensa che tra quei copisti vanno annoverati pittori come Rubens, Guercino e Van Dyck), quando è invece l’incontro personale di san Tommaso con Gesù – e, soprattutto, il suo «Metti qui il tuo dito» – che diventa vero e proprio stilema artistico con cui confrontarsi.

E sono proprio due opere che stanno una al di qua e una al di là di questo spartiacque che analizzeremo oggi.

La prima, datata tra il 1502 e il 1504 e facente parte delle collezioni della National Gallery di Londra, è di Cima da Conegliano; la seconda, datata tra il 1625 e il 1650, di Matthias Stomer, è, invece, custodita al Museo del Prado di Madrid.

Cima da Conegliano (1459/1460 – 1517/1518)
Incredulità di Tommaso
1502-1504, olio su tavola, 294 x 199,4 cm, National Gallery, Londra

Giovanni Battista Cima, detto Cima da Conegliano, fu uno dei più prolifici pittori della Venezia di fine ‘400.

Qui (così come in una seconda Incredulità di Tommaso con san Magno vescovo, del 1505, conservata alla Galleria dell’Accademia di Venezia), la sua pittura si fa – insieme – poesia e musica: il colore si riscalda nella limpida luce, il disegno si ammorbidisce e i personaggi vivono, quasi al limite tra realtà e sogno, nel rigore di una misurata spazialità, nello splendore di una nitida, preziosa e precisa architettura lombardesca immersa a sua volta in un paesaggio che è nostalgica rievocazione o fantastica interpretazione della terra natale.

Pur essendo all’interno di una sala, gli undici apostoli sono immersi in una luce e in una trasparenza d’espressione mediata anche dalla pace della natura esterna, con la sua intensa e diffusa luminosità che rende perfettamente il senso di solennità biblica del momento, collocando così personaggi e paesaggio in una dimensione extratemporale.

Sotto lo sguardo attento e rapito degli altri discepoli, Gesù, preciso nel modellato e delicato nel colore, si offre in tutta la luce della sua bellezza al tocco delicato di san Tommaso che si muove verso il Maestro dischiudendo le labbra nella sua – e anche nostra – professione di fede: «Mio Signore e mio Dio».

«Il Vangelo si legge come le lettere ebraiche, dalla fine», scrive in una sua lirica Jan Twardowski, poeta e sacerdote polacco, amico di papa Wojtyła. È allora proprio da qui, dai giorni successivi alla resurrezione, che nasce la nostra Chiesa di uomini poveri e increduli: come Tommaso, non riusciamo a credere se non vediamo nelle Sue mani il segno dei chiodi e non mettiamo in loro le nostre dita e nel Suo fianco la nostra mano.

È proprio la luminosa bellezza di Cristo che domina il dipinto di Cima, il quale sottolinea il Suo piano educativo.

Sono trascorsi i giorni della Sua Passione: quelli erano i giorni della “vendetta di Dio”, durante i quali ci ha puniti per le nostre fughe inginocchiandosi ai nostri piedi; durante i quali si è vendicato della nostra superficialità entrando, come pane, nel più profondo di ognuno di noi; durante i quali ci ha fatto capire chi Lui è: bacio a chi lo tradisce. Erano i giorni nei quali non ha spezzato nessuno, se non se stesso; non ha versato il sangue di nessuno, se non il suo; non ha sacrificato nessuno, se non se stesso (cfr. “Luoghi dell’infinito”, aprile 2020).

Adesso siamo nei giorni della Resurrezione, e Marina Marcolini, professoressa e autrice televisiva della trasmissione di Rai Uno Le ragioni della speranza, ci dice: «Gesù non ha fuggito la crisi, l’ha affrontata. Ha preso il tradimento, il fallimento dell’amore, l’incomprensione dei suoi, e invece di giudicare, accusare, rimproverare, invece di rimandarli a casa, al lago, al banco, alle barche, perché non hanno capito, non ce la fanno, inventa qualcosa di inedito per educarli ancora, per aiutarli ancora a capire, per farli salire, su verso il suo sogno».

Avrebbe potuto lasciarli lì, ricominciare altrove. Invece, ha rilanciato la posta. La strategia educativa di Gesù è “portare su”, più in alto, allargare orizzonti, far respirare aria più pura.

E Cima, col suo quadro, ci porta più in alto, verso la luce, ci allarga gli orizzonti e ci fa respirare aria pura con i suoi paesaggi ariosi che richiamano tutti noi alla contemporaneità per essere qui, oggi – pur nell’imperfezione, nell’incredulità, nella superficialità e nel tradimento – Chiesa di Cristo e collaboratori del Regno. Il Gesù di Cima ci mostra l’immensa vulnerabilità dell’atto d’amore. Bello è chi ti ama. Bellissimo è chi ti ama fino all’estremo (cfr. “Luoghi dell’infinito”, aprile 2020).

Matthias Stom, o Stomer o Stomma (1600 ca – dopo 1650)
Incredulità di san Tommaso
1625-1650, olio su tela, 125 x 99 cm, Museo del Prado, Madrid

Di tutt’altro impatto emotivo, invece, è la tela del pittore olandese Matthias Stomer. L’opera è citata per la prima volta nel 1734 come copia del Guercino. Assegnata poi a Gerrit van Honthorst in un inventario del Palazzo Reale di Madrid del 1772, passò alle raccolte del Prado nel 1963, per poi essere assegnata a Hendrick ter Brugghen. È, infine, del 1985 il riconoscimento dell’attribuzione – che vede oggi concordi tutti gli studiosi – a Matthias Stomer.

San Tommaso è qui raffigurato nell’atto di infilare le dita nella ferita del costato. Come già detto, forti della lezione caravaggesca, questo è uno dei temi più frequenti nella pittura religiosa del XVII secolo, anche perché dava modo agli artisti di sperimentare soluzioni tecniche per alcuni problemi allora assai sentiti: il realismo della resa anatomica del corpo nudo – in questo caso quello di Cristo –, lo stupore nei volti, nonché i giochi di luce e ombra. Qui, però, Stomer non si rifà direttamente a Caravaggio, che aveva posizionato Gesù sul lato sinistro del suo dipinto, bensì al suo conterraneo Hendrick ter Brugghen che, in una sua copia, aveva invertito le posizioni di Cristo e san Tommaso, mettendo quest’ultimo a sinistra.

Lo spazio della tela è equamente diviso tra Gesù e i tre discepoli, intorno a Lui raccolti.

Le figure emergono vigorose da un fondo bruno, del tutto anonimo: l’intero dipinto gioca sui toni rosso-marroni e conferisce risalto al color avorio con cui è resa la statuaria figura di Cristo.

Innovativa è la soluzione di mostrare il corpo di Gesù totalmente, senza parti nascoste da veli (eccezion fatta per il braccio sinistro), come invece avevano fatto sia Caravaggio che ter Brugghen. Mentre questi ultimi volevano che l’attenzione di chi guarda sia equamente divisa tra il Maestro e san Tommaso, è qui ovvio come Stomer voglia conferire a Gesù un ruolo di assoluto protagonista, confermato anche dal fatto che l’apostolo è girato di spalle, quasi a voler sottolineare l’intimo legame con chi osserva il dipinto. È come se il pittore ricorresse a uno zoom: i protagonisti sono ad altezza di osservatore, per cui chiunque sia di fronte a quella tela diventa il quinto personaggio della scena; anche lui si trova a chinare lo sguardo, incredulo e stupito, sulle ferite di Cristo.

Siamo così al fulcro del quadro, al particolare su cui Stomer fa convergere tutto, occhio dello spettatore compreso. Il dito di Tommaso tocca un uomo vivo, s’addentra nella carne: racconta «l’accaduto, nient’altro che l’accaduto», come avrebbe scritto il critico Roberto Longhi commentando il dipinto di Caravaggio. E la conferma viene dagli altri due apostoli. Non hanno avuto la sfrontatezza di Tommaso, ma si vede benissimo dai rispettivi sguardi che il dubbio era attecchito anche nel loro cuore: Gesù era risorto davvero con il suo corpo o quello che avevano davanti era un fantasma? Così i loro occhi fremono nell’attesa: altro che preoccuparsi di rimproverare Tommaso per la sua incredulità…

È, quindi, il movimento titubante dell’apostolo dubbioso che ci coinvolge: in esso c’è tutta la nostra incredulità di fronte al mistero. Vi è ritratto il nostro mondo, che spesso trova valido solo ciò che è scientificamente riscontrabile. Eppure Cristo si lascia esaminare, a sottolineare che è “presenza reale” che trasfigura il quotidiano.

Gli altri due discepoli accompagnano nel gesto e nello sguardo lo sbigottimento del primo. Non sappiamo chi siano: forse nessuno degli apostoli di Cristo, ma due anonimi discepoli in cui poterci davvero riconoscere.

Stomer, insomma, indovina tutte le dinamiche umane della scena. Non lascia scampo a ipotesi alternative, e declina il suo quadro al tempo presente. Veste i protagonisti della vicenda con abiti contemporanei, lasciando solo su Cristo una tunica. È un corto circuito quasi impercettibile che serve, però, a dare una verità ancora più diretta e comprensibile al fatto raccontato: quell’episodio accadde un giorno di tanti secoli fa in Palestina, ma proprio perché allora realmente accaduto può essere, anche oggi, riscontrabile e toccabile con mano.

C’è l’intera l’umanità nei panni sofferti della povertà – come denuncia il logoro abito di Tommaso – e nel carattere accentuatamente popolaresco dei personaggi, nei loro coloriti olivastri, nelle mani robuste e nodose; tutti gli uomini sono accomunati nella passione scritta nel rosso del mantello dell’apostolo più lontano; è un’umanità inesorabilmente attratta da Cristo e dalle sue ferite, dalle quali sprigiona una pace ineguagliabile.

La pace è scritta nel luminoso volto del Risorto, così mite, così attento che i suoi intendano bene il segreto della Sua Pasqua, la verità di questa vita nuova che non è aliena dal presente, ma che dentro la storia canta di un’altra storia, di un’altra vita. E così, in quelle dita così grossolanamente piantate nel fianco di Cristo, ruota ormai ogni destino, anche il nostro. Qualcuno, oggi, ha toccato il Verbo della vita, è divenuto testimone di una inaudita comunione con il divino, mai da nessuno prima sperimentata; e nel vortice di questa comunione, nell’esperienza unica di questo “toccare”, ha attirato tutti noi che ancora mangiamo e beviamo con Lui dopo la Sua resurrezione dai morti.

La luce viene da sinistra, l’ombra incombe da destra. Ma anche dietro al Risorto c’è oscurità, un’oscurità che vela il mistero della sua provenienza. Se il futuro rimane minacciato dalle tenebre, è dalla rivelazione, dalla Parola nuova – e pur antica – che viene la luce. Cristo, infatti, è interamente bagnato dalla luce che invade la scena ed è dipinto con il panneggio e la statuaria compostezza dell’antica arte classica, mentre i discepoli vestono i panni comuni dell’epoca dell’autore. Il messaggio è chiaro: la memoria del passato – e di “quel” passato che è eterno oggi – salva il presente.