L’Agnello di Dio. III Domenica di Pasqua

Dopo le due Incredulità di San Tommaso che ci hanno guidato nella riflessione sul Vangelo di domenica scorsa, anche oggi saranno due le opere che ci aiuteranno a meditare sull’odierno brano della liturgia ambrosiana. All’inizio del Vangelo giovanneo, subito dopo il prologo, entra in scena il primo protagonista: è Giovanni il Battezzatore che – a differenza dei sinottici – non viene presentato come un profeta nel deserto, ma semplicemente come “uomo mandato da Dio” (Gv 1,6), come “testimone della vera Luce” (Gv 1,7), come “amico dello Sposo” (Gv 3,29). Sono appellativi che ci sorprendono, perché mettono a fuoco non tanto l’identità del Battista quanto la sua relazione con Cristo. E per ben due volte, infatti, a distanza di pochi versetti, è proprio lui che a tutti – ai sacerdoti e ai leviti mandati dai Giudei a interrogarlo, così come ai suoi discepoli: a tutti noi, quindi – indica Gesù con queste parole: «Ecco l’agnello di Dio». Come per san Tommaso, anche per questa icona evangelica tantissimi sono stati i pittori che si sono lasciati coinvolgere. La nostra scelta è caduta su due opere tra loro assai diverse, anche se temporalmente vicine (c’è, tra loro, una differenza di circa 40 anni soltanto): di Hieronymus Bosch la prima, espressamente dipinta per “parlarci” del Battezzatore; di Lorenzo Lotto la seconda, che ci mostra una singolare raffigurazione dell’Agnello.

Hieronymus Bosch (1450 – 1516)
San Giovanni Battista in meditazione
post 1488, olio su tavola di quercia (49 × 40,5 cm)
Madrid, Fundación Lázaro Galdiano

Hieronymus Bosch fu uno dei più originali pittori che lavorarono a cavallo fra il XV e il XVI secolo. Figlio e nipote di pittori (anche i quattro fratelli del padre lo erano), in un’epoca – il ‘Tardo gotico’ o ‘Primo rinascimento’ – in cui l’arte cercava monumentalità e illusionismo, nonché armonia e splendore, Hieronymus percorre invece tutt’altro cammino. È pittore dalle visioni oniriche, del fantastico e del sogno, così come del demoniaco e dell’inferno. Si inserisce nell’ambito del “grottesco”, in una pittura, cioè, che dà ampio spazio all’immaginazione e alla capacità d’invenzione dell’artista. Il religioso José de Sugüenza, uno dei primi estimatori di Bosch, nel 1605 descrisse le sue opere come “satire sui peccati e l’incostanza degli uomini”.

Il San Giovanni Battista in meditazione – insieme al San Giovanni a Patmos conservato a Berlino – faceva parte di un polittico che Bosch dipinse su incarico della Confraternita di Nostra Diletta Signora di s’Hertogenbosch (un’associazione fondata nel 1318 che comprendeva uomini e donne, laici ed ecclesiastici dediti al culto della Vergine e a opere di carità). Le due ante costituivano le portelle richiudibili delle parti superiori di un retablo (grande pala d’altare inquadrata architettonicamente) scolpito per la cappella della confraternita a Sint-Jan, la principale chiesa della città, i cui patroni erano, appunto, Giovanni Battista e Giovanni Evangelista.

In netto contrasto con le tradizionali, rutilanti scene apocalittiche di cui il pittore è artefice indiscusso, Giovanni Battista è qui immerso in un calmo e sereno paesaggio, lontano dalle visioni infernali di cui Bosch fu cantore.

Il volto del Battista presentatoci dal Vangelo di Giovanni è estremamente umano, un viso che ritroviamo nel lavoro di Bosch, nel quale viene insolitamente dipinto nei panni di un filosofo immerso nella quieta bellezza di una natura che fiorisce rigogliosa attorno a lui. Sullo sfondo, alcuni animali selvatici pascolano docili e indisturbati: tra di essi distinguiamo chiaramente un cervo (simbolo di Cristo) e un cinghiale (simbolo del potere demoniaco che tenta l’uomo nella sua carne). Avvolto in una veste rossa – che allude alla Passione – dalle cui maniche spunta una veste di crine, tipico attributo della vita ascetica, giace con gli occhi semichiusi puntando l’indice della mano destra verso un piccolo agnello seminascosto al suo sguardo ma vicino all’osservatore. L’espressione del suo volto è del tutto singolare; la sua posa, che potrebbe sembrare melanconica, in realtà indica la sua totale accettazione del piano divino. A chi è rivolto il suo mezzo sorriso sornione? Proprio a noi, forse? È nella più piena solitudine che il Precursore, rivestito dei panni di un filosofo che ricerca (e nell’Agnello trova) la sola sapienza che può condurre alla verità, appare come l’uomo pacificato, il nuovo Adamo. Il Logos che Giovanni Battista viene ad annunciare è, appunto, la sapienza ordinatrice di Dio nella quale e per la quale tutte le situazioni dell’esistenza trovano significato. Anche la croce.

Nel 1996, con un esame ai raggi x, si è scoperta la presenza, accanto a Giovanni, del committente dell’opera. Ma, già durante la realizzazione del dipinto, Bosch vi dipinse sopra una pianta piuttosto grande e alquanto bizzarra, vera e propria invenzione pittorica. I suoi tre frutti pieni di semi fanno pensare alla melagrana, simbolo di fertilità e abbondanza, ma anche dell’amore misericordioso, dell’immortalità e dell’azione salvifica della chiesa. A ciascuno dei tre frutti corrisponde un uccello, rappresentazione di uno stadio della condizione dell’anima umana. Sull’erba, il primo volatile dai colori scuri che becca in un frutto aperto (mentre accanto a lui giace, morto e rigido, un altro uccello) è simbolo dell’uomo che vive nel peccato. Quello con le piume colorate che a metà altezza si sfama a un grosso frutto bianco è immagine dell’uomo che sta cadendo vittima della tentazione dei sensi. In alto, infine, l’uccello che, sullo sfondo del cielo, è posato su un frutto chiuso diventa simbolo di illuminazione e vicinanza a Dio. Dietro a questo pannello doveva esserci un dipinto in grisaglia raffigurante un’iride con una pupilla, al cui centro c’era una fenice – uccello che rappresenta la risurrezione –, simbolo del Risorto incarnatosi come uomo per salvare, nella morte in croce, l’umanità intera. Ecco, allora, l’Agnello di Dio: l’Innocente pronto al sacrificio.

Lorenzo Lotto (1480 – 1556/1557)
Adorazione dei pastori
1530 circa, olio su tela (147 x 166 cm)
Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

Raffinata e dolcissima è, invece, l’Adorazione dei pastori, realizzata da Lorenzo Lotto, definito il “genio inquieto del Rinascimento”. Il restauro del 2004 ne ha restituito l’originaria brillantezza cromatica, insieme con la data di esecuzione: 1530.

Da dimensioni e formato si evince che la tela fosse destinata alla parete di un palazzo privato. È peraltro molto probabile che i volti dei due pastori inginocchiati in primo piano, in atto di adorazione semplice e discreta, siano i ritratti dei ricchi committenti, verosimilmente due fratelli: infatti, sotto le giubbe da pastori, aperte sul petto, si scorgono eleganti abiti cinquecenteschi, nei toni sgargianti del giallo e del vinaccia, che rivelano una condizione sociale decisamente elevata.

È semplicemente straordinaria la naturalezza con cui la natività di Gesù viene descritta dal Lotto (Bernard Berenson, uno dei massimi esperti mondiali di arte rinascimentale italiana considerò il pittore veneziano il più interessante ritrattista italiano per la sua attenzione psicologica). Di fatto, il carattere più evidente dell’opera è la sua capacità di trasformare lo schema della “sacra conversazione” in una riunione confidenziale che accomuna sullo stesso terreno e distribuisce la stessa indole ai personaggi divini e umani.

Nell’interno della stalla di Betlemme, due angeli con le ali spiegate introducono al cospetto della Sacra Famiglia i pastori, che recano in omaggio un agnello: in uno slancio di infantile tenerezza, il Bambino afferra con entrambe le mani – con un gesto di viva quotidianità – il muso dell’animale, la cui presenza va letta come un riferimento al destino di Cristo. Nessuno, però, sorride; anche perché l’agnello è un evidente simbolo del salvifico sacrificio di Cristo e della sua Passione.

Tutti gli sguardi sono puntati su Gesù, con l’eccezione di quello di un angelo che guarda noi spettatori, esortandoci a quella intimità che si stabilisce quando fioriscono i più profondi legami familiari. È come se l’angelo – e, con lui, tutti i personaggi del dipinto – volessero sottolineare le parole che subito seguono l’odierno Vangelo:

«Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: “Ecco l’agnello di Dio!”» (Gv 1,35-36). “Fissare lo sguardo su Gesù”: è quel che ci invita a fare il Battista, il primo testimone; ed è ciò che ci invita a fare Lorenzo Lotto.

Nel Vangelo di Giovanni il verbo “vedere” ha un’importanza particolare, tanto che l’evangelista usa quattro diversi verbi greci per sottolineare – di volta in volta – una particolare maniera di vedere. Si va da “scorgere”, al verbo che definisce lo sguardo attento e osservatore di chi vede i segni che Gesù compie, a “contemplare”, a, infine, il verbo più denso di significato che implica l’aver visto e compreso.

Lorenzo Lotto, allora, ci dice che è proprio su Gesù – che qui, tenero bimbo, si auto-identifica con l’Agnello – che (come il Battista) dobbiamo porre la nostra attenzione: per ora, magari, solo “guardando”, solo “fissando lo sguardo”; per poi giungere, alla fine del racconto evangelico, alla comprensione e alla testimonianza. Il pittore, in forma intima e poetica, ci mostra un Gesù che prende i nostri doni e li fa suoi, li fa nuovi, indicandoci che la salvezza passa anche attraverso la quotidianità. Anche oggi – ci viene detto – il Signore ci viene incontro nella nostra vita ordinaria, nelle nostre occupazioni piccole o grandi. Ma abbiamo bisogno di qualcuno che ce lo indichi; abbiamo bisogno di riconoscere i testimoni che ci rivelano la presenza di Gesù, mescolato tra la folla di ogni giorno. Il Signore continuamente viene verso di noi, cerca l’incontro perché è il Risorto, il Vivente. Dal fondo buio della capanna, attraverso le aperture della porta e di una finestrella, riverbera una luce crepuscolare, che avvolge tutta la scena, evidenziando raffinatissimi effetti di ombre e sottolineando morbidi passaggi chiaroscurali, tanto che Roberto Longhi, grande storico dell’arte del XX secolo, riconobbe in quest’opera un emblematico precedente del caravaggismo seicentesco. Ma la vera luce – che illumina il dipinto e la nostra fede – è quella che emana, in maniera soprannaturale, il Bambino stesso. È, forse, l’insegnamento più vero e intenso del pittore veneziano, che dimostra di aver fatto pienamente sue le parole del prologo giovanneo: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. […] Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,4-5.9).