La resurrezione di Lazzaro. Quinta domenica di Quaresima

L’episodio di Lazzaro chiude una trilogia che, sempre, ci accompagna nel percorso quaresimale; trilogia composta dagli episodi della Samaritana, del cieco nato e della resurrezione di Lazzaro. Questi tre grandi affreschi evangelici ci portano a riconoscere Gesù come via, verità e vita.
Alla Samaritana, infatti, donna “persa” dentro un cammino sbagliato, sia dal punto di vista umano che da quello religioso, Gesù si rivela come via: né su questo monte né in Gerusalemme si adora Dio, ma lo si adora in spirito e verità, attraverso la via del Figlio.
La verità di Cristo si fa poi strada nella vicenda del cieco nato, di colui che è impossibilitato a vedere fin dalla nascita, ma che viene illuminato dall’incontro con Gesù.
Infine, prima di imboccare la via della passione, Giovanni offre la testimonianza certa che il Figlio è anche vita: la signoria sulla morte che Gesù mostra resuscitando Lazzaro è la prova, pur debole e imperfetta (perché Lazzaro, redivivo, morirà di nuovo), della signoria che saprà manifestare con la Sua definitiva resurrezione.
È anche interessante notare come la resurrezione di Lazzaro sia poi il settimo “segno” che Giovanni ci racconta nel suo Evangelo: è l’ultimo prima degli eventi della passione. Il quarto evangelista, infatti, non parla mai di “miracoli”, ma di “segni”. Rispetto agli altri sinottici che abbondano di miracoli (ventotto per l’esattezza) Giovanni ne cita solo sette che servono però a sviluppare una chiara pedagogia per l’ottavo grande e definitivo “segno”. I sette miracoli che Giovanni descrive nel suo Vangelo (le nozze di Cana [Gv 2,1-11]; la guarigione del figlio del funzionario di Cana [Gv 4,46-54]; la guarigione del paralitico alla piscina di Betzatà [Gv 5,1-9]; la moltiplicazione dei pani [Gv 6,1-15]; Gesù che cammina sulle acque [Gv 6,16-21]; la guarigione del cieco nato [Gv 9,1-41]; la resurrezione di Lazzaro [Gv 11,1-44]) portano tutti a identificare e proclamare il centro della nostra fede: la morte e la resurrezione del Signore Gesù.
Nella storia dell’arte, innumerevoli sono le rappresentazioni della resurrezione di Lazzaro. Nell’arte delle catacombe, per esempio, essa è – dopo l’immagine del “Buon Pastore” – l’episodio neotestamentario più diffuso: per i primi cristiani, infatti, il racconto giovanneo evoca la speranza della vita eterna, di cui il personaggio di Lazzaro contiene la promessa. La peculiarità del miracolo, segno della potenza divina che vince la morte, è sottolineata già dai primi autori cristiani, come Tertulliano e Agostino, che recuperano il concetto che la “resurrezione” di Lazzaro è la prova inconfutabile della natura divina di Cristo, prefigurazione della sua stessa resurrezione e, per questo, immagine della remissione dei peccati.
La rappresentazione della resurrezione di Lazzaro la fa poi da padrona nell’arte funeraria dei primi secoli del Cristianesimo, dove solitamente occupa una delle estremità delle lastre o della fronte dei sarcofagi; ed è anche assai frequente nelle arti minori, su lucerne e vetri dorati, su pissidi e su coperture di Evangeliarii.
Sono molti i grandi artisti che – nel corso dei secoli –hanno affrontato questo tema, come Giotto, Duccio di Buoninsegna, Beato Angelico, Lorenzo Ghiberti, fino a Guercino, Tintoretto, Rubens, Delacroix e, per venire ai giorni nostri, William Blake, Salvador Dalì e Annigoni.
Particolarmente famose sono l’acquaforte e la successiva tela di Rembrandt, che mostrano un Lazzaro che risorge sotto l’azione taumaturgica di Gesù e solleva la sua testa esanime davanti a coloro che assistono allibiti. Come già Caravaggio, Rembrandt conserva il tradizionale gesto della mano destra di Gesù; ma esso è esagerato, con il braccio levato in alto quasi ad accompagnare il rialzarsi di Lazzaro, strappato alla tomba.

Veniamo dunque all’opera scelta oggi: La resurrezione di Lazzaro, di Vincent Van Gogh. Per meglio capirne la genesi è estremamente interessante soffermarci un attimo sull’ultimo anno e mezzo della sua vita.
Il pittore si taglia un orecchio la sera del 23 dicembre 1888. È l’inizio del suo personale e dolorosissimo calvario: prima all’ospedale di Arles, dove rimane due settimane; poi, il 7 febbraio 1889 ha una ricaduta e viene messo in isolamento; il 19 marzo Vincent viene di nuovo mandato all’ospedale di Arles per poi essere rinchiuso nell’istituto psichiatrico di Saint-Rémy-de-Provence, dove rimane un intero, lunghissimo anno. Poco prima di entrarvi, in aprile scrive queste righe all’amato fratello: «Se non avessi la tua amicizia sarei rispedito senza rimorsi al suicidio e per quanto io sia codardo, finirei per andarci». Colpisce, in modo particolare, l’espressione finale della sua frase: il suicidio è un luogo (quasi lo identificasse col sepolcro!).
Come tutti gli altri pazienti con disturbi psichiatrici, Van Gogh non riceve alcuna cura: è “lasciato a vegetare nell’ozio” (bagni caldi e freddi alternati due volte alla settimana era la cura dell’epoca: nient’altro). I malati dapprima lo spaventano un po’, anche se arriva a considerare “la follia una malattia come un’altra”. È la pittura la sua miglior medicina, è il “parafulmine” contro il suo male. Lì a Saint Rémy, dove si sente in prigione, ha varie crisi.
Il 16 maggio 1890 Van Gogh lascia finalmente la clinica psichiatrica per tornare al Nord, a pochi chilometri dal fratello. Pur minato dal dolore e dalla malattia, in cuor suo spera in una resurrezione; e lo spera a tal punto da mettere il suo volto al posto di Lazzaro in una tela inondata di giallo e di vita, dipinta poco prima di partire: proprio La resurrezione di Lazzaro, che risulta così essere una delle sue ultime opere.
Il 23 luglio scrive un’ultima, incompiuta, lettera, nella quale si percepisce la sua lacerante altalena tra una melanconia “attiva”, quella del lavoro, e una melanconia “della disperazione”. Di nuovo, in filigrana, compare il tema del suicidio, luogo dove “andare” più che azione da compiere.
Il 30 luglio, dopo essersi sparato, Vincent muore al termine di un’agonia di quasi due giorni.
Come già detto, dipingendo la Resurrezione di Lazzaro Van Gogh sperava ardentemente in una propria resurrezione, che potesse vincere un dolore e una malattia che hanno ormai minato irreparabilmente la sua esistenza. Vincent ha perfettamente in mente l’incisione di Rembrandt: il suo Lazzaro ha tratti e atteggiamenti simili a quello del suo predecessore; così come una delle figure femminili del suo quadro alza le braccia allo stesso modo dell’opera di due secoli prima.
Il dipinto di Van Gogh è però pervaso e intriso dal colore giallo, il colore della vita; di quella vita che il pittore anela a vivere, ma la cui pienezza gli sembra essere preclusa.
Mentre le due sorelle assistono al miracolo con gesti di esultanza, di ringraziamento e di benedizione quasi, nel dipinto campeggia un sole luminosissimo, che penetra non solo nel sepolcro ma nelle vesti e nella carne stessa di un Lazzaro che ha il volto del pittore.
È un sole giallo che rotea in cielo; è un sole d’invenzione; il suo ultimo sole (purtroppo!). E Vincent, che sembra rendersene conto, si affida totalmente a questo Dio che mai si stanca di aiutare l’uomo e che sempre dona, gratuitamente, una vita vera capace di superare ogni dolore e ogni malattia.
Ecco allora perché nel dipinto di Van Gogh Gesù non si vede, nemmeno sullo sfondo (anche nel racconto di Giovanni Gesù non entra nel sepolcro). Il pittore dà a Cristo la forma di quel sole che illumina lo spazio centrale dell’opera (quello spazio che in altre opere e in Rembrandt, soprattutto, è occupato da Cristo). Van Gogh ci insegna che Gesù illumina, che Gesù è luce. Soprattutto, lo sarà di nuovo all’indomani della Sua resurrezione.
Il nome Betania, in fondo, significa “Casa dei poveri di Jahvè” (‘beth’ = ‘casa’; ‘anìa’= ‘poveri di Jahvè’). Nel racconto giovanneo è chiaro come la casa di Lazzaro sia un luogo dove regna la vera povertà, quella spirituale, quella dell’assoluto abbandono a Dio. Nel nome di Lazzaro, poi, sta scritto il suo stesso destino, visto che significa ‘Dio aiuta’.
Il fatto che Gesù tardi nel soccorrere l’amico aspettandone la morte dice chiaramente come le tenebre di cui Gesù parla («Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui» [Gv 11,9-10]) siano quelle che calano sugli occhi dell’uomo incapace di comprendere il disegno di Dio che si realizza anche – e, forse, soprattutto – dentro una storia travagliata. Con le sue parole enigmatiche, allora, Gesù colloca la malattia di Lazzaro (così come quella del pittore) in stretta relazione con la sua ora. Gesù non teme di tornare in Giudea – dove già avevano tentato di ucciderlo – perché sa che non è ancora arrivato il suo momento, quel momento che coinciderà con il trionfo solo momentaneo e apparente delle tenebre. Qui, Cristo opera in pieno giorno – è Lui la luce che vince le tenebre, il peccato, il dolore e la morte, ci “grida” disperatamente Van Gogh col suo dipinto – e nulla di male potrà mai accadere. Quel che Gesù sta per fare a Lazzaro dimostra che per un credente in Cristo il giorno non tramonterà mai: un cristiano “vede” sempre, anche nelle tenebre più fitte, quelle della morte.
Luce e vita sono inscindibili. Nascono dalla stessa sorgente, come lo stesso prologo del Vangelo di Giovanni ci insegna: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre…» (Gv 1,4-5a).
È solo dalla luce di Cristo che promana la vita assoluta. Lazzaro (e, con lui, lo stesso Van Gogh e ognuno di noi) viene inondato da quella luce e da quella vita: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato» (Gv 11,4).
Le tenebre e la morte sono nient’altro che “sonno”, una parentesi tra la vita sorgente e la vita destinazione.
Quanta gioia scaturisce dal Vangelo della vita!