La Crocifissione. Venerdì santo

Per riflettere sul mistero del Venerdì Santo usiamo due opere di Salvador Dalí, alquanto lontane dall’usuale iconografia del Crocifisso, uno dei simboli maggiormente interpretati nella storia dell’arte, la cui rappresentazione pittorica ha subito notevoli cambiamenti nel corso dei secoli. E l’arte del Novecento è sicuramente un concentrato ricco di nuove chiavi di lettura sul tema della Crocifissione.

Scegliere due opere di Dalí, personalità complessa e densa di contraddizioni, potrebbe sorprendere: geniale e megalomane, ebbe una produzione a volte dissacrante e volutamente scandalosa, eppure non priva di una ricerca sincera del vero e del bello.

La prima tela è il Cristo di San Giovanni della Croce, del 1951, esposta al Kelvingrove Art Gallery and Museum di Glasgow.

San Giovanni della Croce, uno dei più grandi mistici cristiani, fu anche artista, poeta e disegnatore. Un giorno del 1575, mentre è in preghiera nel Monastero dell’Incarnazione, ha una visione di Cristo sulla Croce, terminata la quale, prende carta e penna per riprodurre quel che ha visto: Gesù ha la testa reclinata sul petto (così che il volto è appena visibile), le braccia sostenute da pesanti chiodi, le gambe piegate sotto il peso del corpo. L’immagine la si vede dall’angolo in alto a destra, prospettiva che ci invita a guardare Gesù sulla Croce con gli occhi di Dio Padre, commosso per l’atto supremo di donazione del Figlio.

Secoli dopo Salvador Dalí, dopo aver fatto quello che chiama “sogno cosmico” che aveva per centro il nucleo di un atomo, si ispirerà a questo schizzo di san Giovanni della Croce accentuandone l’impossibile scorcio: il pittore assume proprio quella prospettiva portando il punto di vista in alto, sull’asse verticale della croce.

Per lui è il periodo della riscoperta del Rinascimento italiano e dell’iconografia cristiana, nonché di un avvicinamento al misticismo. In questa tela, una delle più famose di questo periodo, l’effetto spettacolare è dato dall’insolita prospettiva in cui mette il crocifisso – visto con un arditissimo scorcio dall’alto verso il basso –, memore delle analoghe invenzioni di Andrea Mantegna. La composizione, che cambia improvvisamente direzione nella parte inferiore, è ripartita su due livelli sovrapposti (il piano nero dal quale emerge la croce in prospettiva e il piano del paesaggio) che, ovviamente, rappresentano lo spazio celeste e quello terreno: anch’essa è una citazione di artisti rinascimentali quali Pietro Perugino e Raffaello.

Simmetrie e schemi geometrici diventano chiavi di lettura sacra: la figura scorciata del Crocifisso appare iscritta in un triangolo equilatero, con la punta coincidente con i piedi, quale modulo di assoluta perfezione e segno trinitario: nel suo centro visivo, simbolico e religioso, Dalí raffigura la testa di Gesù inscritta in una perfetta circonferenza. Tali geometrie sono appositamente scelte, in quanto il cerchio ed il triangolo rappresentano – in modo perfetto – il sogno cosmico e metafisico del pittore, proiettato verso la risurrezione e la dimensione religiosa della Trinità. Se il Crocifisso è visto dall’alto, il paesaggio sottostante è visto da un rilievo che sale dalla spiaggia. Questi due punti di vista creano un voluto effetto visivo che porta Cristo a essere il punto mediano tra cielo e terra, tra il divino e l’umano.

Dalí vede Gesù senza corona di spine, con il corpo perfetto e privo di ferite, aderente al legno della croce, ma senza chiodi. La croce è protesa verso il basso ed è sospesa, immobile, nel buio di un universo che si illumina nella parte inferiore a definire un preciso paesaggio. La terra riceve luce dal cielo e anche Cristo è illuminato dall’alto: è dunque l’Eterno Padre la sorgente della luce che illumina il mondo e rende ragione della morte del Figlio. Il gioco chiaroscurale è determinante per aumentare la drammaticità della scena.

Sull’orizzonte c’è un bagliore, che richiama quello di un’esplosione atomica, e che colora le nuvole con effetti da aurora boreale. Come il nucleo dell’atomo che esplode – sono ancora parole di Dalí –, Gesù crocifisso si pone nella storia e nel cosmo come la più grande energia, capace di ricostruire dal di dentro l’universo.

In basso, su una pacifica spiaggia di un lago, quella di Port Lligat, Dalí dipinge tre pescatori con la barca a riva e con una rete che viene tratta a terra. I pescatori non sono casuali: sono un chiaro riferimento ai pescatori di Galilea, nonché un’allusione alla barca di Pietro, la Chiesa che, dall’alto – dal Cristo, centro cosmico, quale punto irradiante pace – riceve luce per navigare nel mondo, dove è inviata per illuminare le genti.

Anche il colore è protagonista: sulla tela, Dalí rappresenta il trionfo della Luce sulle tenebre. Le differenti tonalità vogliono illustrare la componente terrestre accanto quella universale; le cromie scure e cupe della morte lasciano il posto a quelle chiare e luminose che annunciano e anticipano la risurrezione.

Il corpo del Figlio di Dio è rappresentato al tempo stesso in croce e in una dimensione che vuole andare oltre a quella terrestre per abbracciare quella ultraterrena e divina. È già il Risorto: Cristo è vivo, le sue mani non sono trafitte dai chiodi, il suo corpo, dalla perfetta anatomia muscolare, è privo di sangue. È, forse, proprio per questo motivo che il Cristo di San Giovanni della Croce possiede un forte potere comunicativo, simbolico e religioso.

È l’opera di un artista geniale che, dopo aver vagato errante in cerca d’assoluto, alla fine confiderà: «Il Cielo, ecco quello che la mia anima ebbra d’assoluto ha cercato durante tutta una vita che a certuni è potuta sembrare confusa e, per dirla tutta, profumata dello zolfo del demonio. […] Il Cielo non si trova né in alto, né in basso, né a destra, né a sinistra, il Cielo è esattamente al centro del petto dell’uomo che possiede la fede. P.S. In questo momento non possiedo la fede e temo di morire senza Cielo». Dalí, dunque, ci chiede di fissare lo sguardo sul Crocifisso che illumina la vita dell’uomo e già ha in sé la promessa della Risurrezione. Così come insegnava proprio San Giovanni della Croce, che nel suo libro Salita del Monte Carmelo – vero e proprio capolavoro del mistico spagnolo – mette in bocca a Dio parole rivolte a tutti gli uomini che Lo cercano. Il Padre spiega: «Ho già detto tutto nella mia Parola» – Gesù – «Cosa ti posso rispondere o rivelare ora che sia più di questo?». «Poni gli occhi solo in Lui, perché in Lui ti ho detto e rivelato tutto, e troverai in Lui ancor più di quello che chiedi e desideri… Se volessi che ti dicessi qualche parola di consolazione, guarda mio Figlio, soggetto a me, assoggettato al mio amore e afflitto, e vedrai quante te ne dirà» (Salita II, 22, 5-6).

La seconda opera, invece, è la Crocifissione (Corpus Hypercubus) del 1954, esposta al Metropolitan Museum of Art di New York.

Il titolo di questa tela fa riferimento al fatto che la figura di Cristo non è inchiodata all’usuale croce, ma è magicamente sospesa nell’aria, accostata a una struttura fatta da otto cubi che simulano la forma della croce, ma che in realtà esprimono la rappresentazione dello sviluppo, nello spazio tridimensionale, di un solido che si studia nella geometria della “quarta dimensione”: il tesseratto, ossia un ipercubo quadridimensionale. Chi la osserva, di solito, non si rende conto della sapienza matematica nascosta in questo dipinto. Qui, scienza e religione s’intrecciano grazie alla matematica e all’arte.

Cristo si staglia immacolato e perfetto contro un’improbabile croce e un cielo scuro. Quel corpo perfetto e senza tracce di sangue colpisce e affascina, tanto da non poter distogliere lo sguardo. Quello di Dalí è un Gesù imberbe, bellissimo e glorioso, eppure sofferente, come testimonia – senza equivoco alcuno – lo spasmo delle mani e la posizione del capo. Ma noi sappiamo come proprio grazie a quelle sofferenze e a quella morte Egli ci abbia riscattati dal peccato restituendoci al primitivo splendore. La Risurrezione è già contenuta nella Croce. I due momenti sono teologicamente inseparabili, sono due aspetti indivisibili dell’unico mistero. Il Crocifisso è il Risorto, l’uomo reietto e sacrificato è il Figlio di Dio glorioso: «per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 53,5). Il Cristo di Dalí appare dunque come l’uomo perfetto, il “nuovo Adamo” sospeso tra cielo e terra, non in forza dei chiodi (che sono totalmente assenti), ma in forza dell’Amore. La tensione del corpo di Gesù esprime tutta la sua generosa e libera offerta per amore dell’umanità (rappresentata dalla figura femminile, ritratto della moglie Gala), per riparare la sua storia di peccato (simboleggiata dall’irreale pavimentazione a scacchi, simbolo della storia con le sue trame, con i suoi giochi di azzardo e di potere) e per restaurare l’intera creazione (presente – cielo, terra e mare – sullo sfondo del dipinto). Su quella Croce Cristo non ha requie, non può neppure riposare nel sonno della morte; Egli, infatti, è vivo e agonizzante: «Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo» (Blaise Pascal, Pensieri, 553).

La Croce su cui Cristo consuma il suo darsi per amore nostro ha, in questa tela, una struttura cubiforme. Ma quale significato simbolico nasconde il cubo?

Il cubo è formato da quadrati; e il quattro è una cifra cosmica, la cifra della materia e della prova. Quattro sono i punti cardinali, quattro gli elementi (aria, acqua, terra e fuoco): dunque, cosmo e materia. Multipli di quattro esprimono invece la prova: i quarant’anni del popolo nel Sinai, i quaranta giorni di Gesù nel deserto, la Quaresima, tempo di digiuno e penitenza prima della Pasqua. In ebraico “quattro” (dalet) significa anche porta: il quattro, quindi, indica un luogo in cui si cerca una porta, un passaggio, una pasqua. Il quattro è inoltre il numero del potere del male sulla materia: quattro sono i cavalli dell’Apocalisse che portano carestia, fame, guerra e morte; negli affreschi della Cappella degli Scrovegni, Giotto ha racchiuso in un quadriportico Erode mentre incita i soldati a uccidere (a “s-quartare”) i bimbi innocenti (sullo sfondo della scena c’è uno scorcio del tempio che è, invece, a pianta ottagonale, segno del progetto d’amore e misericordia di Dio). Anche le piaghe di Cristo, nel dipinto di Dalí, sono riassunte e simbolicamente rappresentate da quattro piccoli cubi che si staccano dall’ipercubo della croce.

Nel 1954, quando dipinse questo quadro, il pittore catalano aveva alle spalle una vita in continua fuga dagli orrori delle guerre: per lui, quindi, il cubo esprime la capacità dell’uomo di razionalizzare il male, di pianificare la morte e la tortura; dice l’oppressione dell’uomo sull’uomo. Ma quello che veramente impressionò Dalí – orientando in modo diverso la sua vita – fu l’esplosione atomica di Hiroshima. È interessante notare come un uomo senza pudore e scrupoli, portato alla provocazione e agli eccessi, di fronte a questa materializzazione del male senta la necessità di un ritorno ai valori dello spirito. Egli stesso dirà: «L’esplosione atomica del 6 agosto 1945 mi aveva sismicamente fatto vacillare. Ormai l’atomo era il mio argomento di riflessione preferito. Molti paesaggi dipinti durante questo periodo esprimono la grande paura da me provata all’annuncio di questa esplosione». Tutto questo, quindi, lo portò a penetrare il nocciolo della realtà attraverso un’arma straordinaria, il misticismo: «…l’intuizione profonda di ciò che è, la comunicazione immediata con il tutto, la visione assoluta mediante la grazia della verità, mediante la grazia divina. Più potente dei ciclotroni e dei calcolatori cibernetici, posso in un istante penetrare i segreti del reale… a me l’estasi! L’estasi di Dio e dell’uomo. A me la perfezione, la bellezza, che io possa guardarla con gli occhi».

Ogni uomo potrebbe così leggere nella croce cubica di Dalí la cifra del proprio dolore, il male del proprio tempo. Quella croce esprime la somma del dolore del mondo e della malvagità umana, il peso della materia che si ribella alla volontà del suo creatore.

La luce investe Cristo dall’alto, illuminandone il petto. Un timido bagliore si leva dall’oscuro panorama: l’alba preannunciata sembra però destinata a non venire mai. La luce vera è il corpo di Cristo e tutto ciò che è lontano da Lui rimane nel buio. Solo la donna è bagnata dalla Sua luce, uscendone più vivida nei colori e rinnovata. Cristo è l’innocente; la sua nudità è l’estrema purezza; è la bellezza che salverà il mondo. La donna esprime nobiltà (lo stesso artista aveva affermato: «la nobiltà può venire ispirata solo dall’essere umano. […] Io mi avvicino alla nobiltà solo dipingendo Gala»). La contemplazione di Cristo, allora, nobilita l’uomo. Chi contempla Cristo lo imita; chi lo imita ripara se stesso; chi ripara se stesso, compie un atto di riparazione sul mondo intero.

I colori degli abiti della donna che contempla il Crocifisso richiamano i colori della scena: l’ocra della croce, l’argento della pavimentazione a scacchi, il blu del mare. La parte della veste più vicina alla sua carne è il blu – che richiamando il mare (simbolo del male) rimanda alla fragilità umana, al peccato. Il drappo ocra dice l’identificazione, l’imitazione della donna con il Crocifisso. Il manto argenteo, che più delle altre vesti riflette la luce, dice la divinità. Cristo è l’unico riparatore; tuttavia, da parte dei credenti è necessaria la partecipazione all’opera di riparazione attraverso l’offerta di se stessi e l’imitazione di Cristo. La disponibilità a “salire sulla croce della storia” non s’improvvisa: ci si prepara mediante l’adesione sincera e costante al Vangelo. Adesione che la donna del dipinto di Dalí esprime nel gesto elegante del braccio, bloccato e fissato nel tempo, quasi nell’atto di compiere un segno di croce.

Otto sono i cubi della croce di Dalí, come la pianta ottagonale di molti antichi Battisteri (nonché del tempio di Giotto). Otto, cioè sette più uno: l’ottavo giorno, il giorno della risurrezione che rimanda all’escatologia. Il cubo, il male, non ha l’ultima parola sulla storia. La creazione è proiettata comunque verso un oltre che è e rimane nelle mani del Creatore. Tuttavia, non è solo nell’ultimo giorno che scenderà sul male la parola fine. Degli otto cubi della croce il corpo di Cristo rappresenta metafisicamente il nono cubo e nove è il numero del miracolo (è, in fondo, il quadrato di 3, numero della perfezione divina): indica il divino che irrompe nell’umano (nove sono i cori angelici, intermediari fra Dio e gli uomini). Cristo, nono cubo, dice che la sua risurrezione ha già cambiato la storia, ha già detto l’ultima parola sulla morte, ha già restaurato l’uomo secondo la primitiva bellezza. Il non ancora sussiste, affidato alla libertà dell’uomo; il non ancora è lo spazio che Dio riserva alla nostra partecipazione libera e volontaria alla sua opera di salvezza.

La donna di Dalí, sola davanti alla croce – immersa in un panorama anonimo e deserto – rispecchia la situazione del mondo moderno, in cui la perdita del tessuto religioso nella società ha fatto sì che emergesse la solitudine del credente di fronte alle sue scelte di fede. Se, da una parte, questo implica una presa di coscienza della responsabilità individuale di fronte all’annuncio cristiano, dall’altra comporta il rischio di sfociare nell’individualismo e nel settarismo. È proprio l’Eucaristia, allora, nella sua dimensione di “corpo di Cristo” già costituito in unità eppure non ancora pienamente manifestato che rimette in gioco il senso di solidarietà e la chiamata a farsi carico del fratello, vicino e lontano.

Di seguito, vi lasciamo una breve digressione matematica: