Ingresso a Gerusalemme. Sesta domenica di Quaresima

Non c’è bisogno di grandi presentazioni, né per l’opera né per l’artista.

Stiamo parlando di Giotto – uno dei più grandi e conosciuti pittori del mondo – e dell’Ingresso a Gerusalemme – uno degli affreschi che adornano lo splendido interno della Cappella degli Scrovegni di Padova, il cui ciclo pittorico è tra le più ricche e strabilianti “bibliae pauperum” dell’intero Medioevo. L’artista lavorò nella Cappella, tra il 1303 e il 1305, per realizzare i meravigliosi affreschi sulla storia di Maria e dei suoi genitori – Anna e Gioacchino – e sulla vita di Gesù.

Avvicinandosi la Pasqua, Gesù decide di andare a Gerusalemme e impartisce precise istruzioni ai suoi discepoli perché prendano in prestito un’asina e un puledro. La scelta di questi due animali è dello stesso Gesù, come annota Matteo nel suo Vangelo:

Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Bètfage, verso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito troverete un’asina, legata, e con essa un puledro. Slegateli e conduceteli da me. E se qualcuno vi dirà qualcosa, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma li rimanderà indietro subito”» (Mt 21,1-3).

Tutto ciò adempiva la profezia di Zaccaria che aveva previsto la liberazione di Gerusalemme da parte di un re, non con le armi ma con la sua mitezza:

Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina. Farà sparire il carro da guerra da Èfraim e il cavallo da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle nazioni, il suo dominio sarà da mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra (Zc 9,9-10).

Non un cavallo, quindi, viene scelto ma un asino, proprio perché il primo indica la forza e la guerra, mentre il secondo simboleggia l’umiltà e la mitezza. I discepoli obbediscono e sui due animali stendono, a mo’ di sella, i loro mantelli affinché il Maestro vi si possa sedere per fare il suo ingresso in città. Davanti alla porta di Gerusalemme, all’arrivo di Gesù, in segno di riverenza e di gioia:

Molti stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde, tagliate nei campi. Quelli che precedevano e quelli che seguivano, gridavano: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!» (Mc 11,8-10).

Gesù ha dunque iniziato il suo consapevole cammino verso la morte e la folla che ora lo acclama è la stessa che, ben presto, invocherà la sua crocifissione. Ora, però, l’ingresso di Cristo è trionfale e il racconto degli evangelisti ricalca volutamente l’adventus, l’ingresso del vincitore nel paese sottomesso, con gli abitanti che si prostrano ai suoi piedi.

Giotto costruisce la scena in due blocchi:

  • da una parte i discepoli e Cristo sull’asina, seguita dal puledrino;
  • dall’altra gli abitanti di Gerusalemme che scendono incontro a Gesù, quasi come una cascata, uscendo dalla Porta Aurea (dipinta da Giotto con le fattezze della Porta Aurea di Rimini, nome medioevale dell’Arco di Augusto).

La Porta d’Oro di Gerusalemme, così chiamata nella letteratura cristiana, si affaccia sul lato orientale dell’antica cinta muraria e guarda verso il monte degli Ulivi; è la più antica degli attuali ingressi delle mura della Città Vecchia e fu fatta chiudere dal sultano ottomano Solimano il Magnifico nel 1541. È una delle porte più affascinanti e cariche di mistero e di storia, il cui nome potrebbe nascere da una cattiva traduzione dal greco al latino: in greco, infatti, la porta è indicata con il termine di “oraia” (“bella”), che potrebbe aver fatto nascere, per assonanza, la parola “aurea”.

Secondo una tradizione ebraica, la “Shekhinah” (“presenza divina”) si manifestava attraverso questa porta e si manifesterà ancora in occasione dell’avvento del Messia: Mi condusse poi alla porta esterna del santuario rivolta a oriente; essa era chiusa. Il Signore mi disse: «Questa porta rimarrà chiusa: non verrà aperta, nessuno vi passerà, perché c’è passato il Signore, Dio d’Israele. Perciò resterà chiusa. Ma il principe, in quanto principe, siederà in essa per cibarsi davanti al Signore; entrerà dal vestibolo della porta e di lì uscirà» (Ez 44,1-3). Per tale motivo gli Ebrei sono soliti pregare e chiedere misericordia in questo luogo, da cui il nome Sha’ar Harachamim, la “Porta della Misericordia”. Quando il tempio fu distrutto, la “Shekhinah”, che dimorava nella parte più santa del tempio stesso, se ne andò attraverso la Porta d’Oro e proprio da lì rientrerà quando il tempio sarà riedificato.

Secondo la tradizione cristiana Cristo tornerà per il giudizio finale passando per questa porta. Il profeta Zaccaria dice che il Signore verrà e i suoi piedi si poseranno sopra il monte degli Ulivi che si trova di fronte a Gerusalemme: Verrà allora il Signore, mio Dio, e con lui tutti i suoi santi (Zc 14,5). Anche il profeta Gioele indica la valle di Giosafat come il luogo del giudizio universale; poiché, quindi, il giudizio veniva anticamente tenuto presso una porta della città, i cristiani associarono tale valle con la porta d’Oro. Davanti alla Porta Aurea di Gerusalemme la tradizione cristiana pone anche l’incontro tra i genitori di Maria.

Nel ciclo pittorico della Cappella degli Scrovegni, Giotto sembra dunque riprendere tutte queste tradizioni mostrandoci per tre volte la Porta Aurea: nell’incontro tra Anna e Gioacchinoo, nell’ingresso di Gesù a Gerusalemme e nell’ascesa al Calvario. Giotto vuol sottolineare come proprio Gesù di Nazaret è il Cristo, il Messia, quel Messia atteso e preannunciato dai profeti dell’Antico Testamento, quel Messia misericordioso che, alla fine dei tempi, verrà a giudicarci: non dimentichiamo che l’intero progetto iconografico padovano ha il suo termine e culmine nel Giudizio Universale della controfacciata.

Tornando all’Ingresso a Gerusalemme, Giotto presenta un Cristo che avanza lentamente, quasi trattenuto dalla folla plaudente, benedicendola. Avanza verso la Porta Aurea ancora lontana, quella stessa porta da cui, fra non molto, uscirà carico della croce.

È seguito passo passo dai discepoli, tra i quali si distinguono bene Andrea e Pietro. Quest’ultimo appoggia la mano sul dorso dell’asina quasi a volerci indicare come proprio lui, l’apostolo sul quale Gesù ha voluto fondare la sua Chiesa, si sia fatto “servitore” privandosi per primo del mantello per metterlo sul dorso dell’asina a far da sella a Gesù. Tra uno degli apostoli e il mantello di Gesù spunta infine la testa del puledrino citato da Zaccaria e Matteo. Come per la già citata Porta Aurea e come per molti altri particolari del ciclo di affreschi della Cappella degli Scrovegni, il numero tre – il numero perfetto, simbolo di Dio uno e trino nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo – ricompare anche qui. Per tre volte, infatti, l’asino appare negli affreschi di Padova: nella nascita di Cristo, nella fuga in Egitto e, qui, all’ingresso in Gerusalemme.

Gli si fa incontro una folla incuriosita: chi si prostra, chi accorre a vedere, chi è sorpreso…

Sullo sfondo, in esatta corrispondenza ai due gruppi – Cristo con i discepoli e la folla plaudente – ci sono due ulivi, che sostituiscono, anche nella tradizione liturgica della domenica delle Palme, le palme della Palestina. Sul primo ulivo si è arrampicato un bambino che, di spalle, sta cercando di spezzare un ramo; sull’altro c’è un secondo ragazzetto, di faccia, che è quasi riuscito nell’impresa. Il bambino di spalle, in particolare, è identico a quello presente nella scena del funerale di san Francesco negli affreschi della Basilica di Assisi, quando il cadavere sosta a san Damiano: un vezzo di Giotto che vuole così sottolineare la comune paternità dei due cicli pittorici. L’affresco spicca come uno dei più vivacemente naturali dell’intero ciclo. Curiosa è la sequenza sulla destra, dove la stessa figura viene dipinta tre volte, come se vedessimo, in contemporanea, la sovrapposizione di tre fotogrammi di un film: all’estrema destra, un uomo sta cominciando a togliersi il mantello; subito davanti, lo si vede piegato mentre si sta sfilando l’indumento dalla testa (qualcuno ha voluto vedere in quest’uomo che si copre goffamente la testa col mantello il simbolo di chi non vuole accettare l’arrivo del Salvatore); a sinistra, infine, lo si vede prostrato, mentre stende il mantello sotto le zampe dell’asina. È, quasi, il simbolo del cammino di conversione al quale ognuno di noi è chiamato: come il cieco nato, un poco alla volta quest’uomo – e, con lui, ogni cristiano – giunge all’incontro che cambia una vita: «Credo, Signore!» (Gv 9,38).